«Andreas capì allora di essere morto e di trovarsi al cospetto del giudice divino. Ma ora non era più un ragazzo. In tutta la sala era l’unico in piedi tra mille persone inginocchiate. Mosse un passo in avanti e diede un colpo con la gruccia, che però non fece alcun rumore. Andreas si accorse di essere su una soffice nuvola. Gli venne in mente il discorso che si era preparato per l’udienza del tribunale terreno. Un’ira tremenda nacque nel suo petto, il suo volto si infiammò e l’anima sua concepì parole di collera purpurea, mille, diecimila, milioni di parole. Erano tutte parole che Andreas non aveva mai udito, né pensato, né letto, parole sopite profondamente in lui, tenute a freno dal suo povero intelletto, impedite miseramente sotto la cappa crudele della sua vita. Ma ora esse germogliavano e cadevano via da lui come fiori da un albero. Nel sottofondo si udiva una musica sommessa, e piena di solenne malinconia, Andreas la ascoltava insieme al mormorio del proprio discorso:
Dall’umiltà più devota mi sono destato alla sfida, rossa e ribelle. Dio, se io fossi vivo e non qui al Tuo cospetto, vorrei rinnegarTi. Ma giacché Ti vedo con i miei occhi e Ti sento con le mie orecchie, dovrò far di peggio che rinnegarTi: dovrò ingiuriarTi! Milioni di esseri come me, metti al mondo, Dio, nella Tua fecondissima insensatezza, ed essi crescono creduli e codardi, e nel Tuo nome sopportano le bastonate, nel Tuo nome salutano gli imperatori i monarchi e i governi, nel Tuo nome si fanno bucare dalle pallottole, infliggere ferite purulente, trafiggere il cuore da baionette a tre spigoli, oppure strisciano sotto il giogo delle Tue giornate lavorative, e le amare domeniche coronano di uno squallido smalto le loro atroci settimane, e hanno fame ma tacciono, e i loro figli avvizziscono, e le loro donne diventano brutte e false. Le leggi proliferano sul loro cammino come perfida gramigna, e i loro piedi si confondono nel garbuglio inestricabile dei Tuoi comandamenti, sicché cadono e Ti implorano, ma Tu non li sollevi. Le Tue mani candide dovrebbero essere rosse, il Tuo viso di marmo stravolto, e non dritto il Tuo corpo, ma curvo come quello dei miei compagni d’armi colpiti da una pallottola nella spina dorsale. Ad altri uomini, che Tu ami e nutri, è lecito castigare noi senza neanche l’obbligo di cantare le Tue lodi. A costoro Tu condoni preghiere e sacrifici, equità e umiltà, in modo che essi ci possano ingannare. Noi trasciniamo il peso delle loro ricchezze e dei loro corpi, dei loro peccati e dei loro castighi, noi li sgraviamo dei dolori e dell’obbligo di espiare, delle colpe e dei crimini, e purché essi lo vogliano, noi ci ammazziamo: se hanno voglia di vedere degli storpi, eccoci pronti a perdere le gambe che ci cascano giù dalle giunture, e se hanno voglia di vedere dei ciechi, noi docilmente ci facciamo accecare; se a loro non va a genio di essere ascoltati, noi diventiamo sordi; se vogliono essere i soli a poter gustare e odorare, noi lanciamo una granata contro il nostro naso e la nostra bocca, e se vogliono essere i soli a mangiare, noi maciniamo la farina per loro. Ma Tu che ci sei perché non Ti muovi? Contro Te mi ribello, non contro quelli. Tu sei il colpevole, non I Tuoi scherani. Possiedi milioni di mondi, e non ai cosa fare? Com’è impotente la Tua onnipotenza! Hai da sbrigare miliardi di cosa, e alcune le sbagli? Ma che Dio sei, allora! Se la Tua crudeltà è una saggezza che noi non comprendiamo, allora sì che ci hai fatti imperfetti! Se siamo condannati a soffrire, perché non soffriamo tutti nella stessa misura? Dato che le Tue benedizioni non bastano per tutti, distribuiscile almeno con equità! Io sono un peccatore... Eppure volevo fare del bene. Perché non mi hai lasciato dar da mangiare agli uccellini? E sei Tu che li nutri, lo fai davvero male! Ahimè, volevo rinnegarTi e potrei ancora farlo. Ma Tu sei qui unico, onnipotente, inesorabile, l’istanza suprema, eterna... e non si può sperare che il castigo Ti colga, che la morte Ti svapori in una nuvola, e neppure che il Tuo cuore si desti. La Tua grazia non la voglio! Mandami all’inferno!»
(J. Roth, “La ribellione”, trad. R. Colorni)
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