venerdì 24 dicembre 2010

Nuova Yorke.

7 dicembre, 10.19

A fare ginnastica sul letto, come in decine di altri posti.

Ma qui siamo a New York.

Dalla finestra del nostro grattacielo, all’incrocio tra Water Street e Wall Street, altri grattacieli riflettono il sole sui nostri vetri.

Qui la sera il mondo si ferma, il quartiere si svuota: la finanza va a dormire. Mentre altrove si tiene viva e continua a scorrere in jazz, birra, biliardo, taxi, negri che cantano e predicano nel metró, portieri d’albergo.

New York: gentile ed estranea; troppo veloce e troppo colorata per entrare in confidenza.

Certamente ci ricorderemo i tavolini anni ’50 di Johnny Rocket (e l’annessa vittoria dei Knicks) ed i tubi a soffitto del Gatto Grasso, dove il biliardino si chiama Thunder (o qualcosa del genere) e gioca con la difesa a cinque. E intanto i clacson della strada, incuranti, non si curano dell’arresto di Assange.






7 dicembre, 23.49

Buen dia. Ovvero: tentativo di Caracas. Dovete aspettare mezz’ora; anzi, entrate subito. Incastratevi in questo tavolino da single. Tu, con gli occhiali: dentro. Lascia che ti blocchi. Tu, con la barba più lunga: Imperiàl o Pacifico?

Perciò Chavez, ed i due sconosciuti attempati baffuti che lo sovrastano, divorano, come ogni sera, fagioli neri, riso, pesce, banana, San Francesco e altre figurine con l’aureola.

New York è pure Caracas, in una traversa della Prima Strada a nord di Houston. Noi siamo la sua merce e il suo bagaglio; la sua paga ed il suo debito; il rapimento ed il riscatto.

Forse per questo, poi, ci accasiamo, anche stasera, al distretto finanziario. Dove ci addormentiamo, al caldo di una stanza diversa, una stanza del ventitreesimo piano - già pronti a prendere il toro per le corna.







9 dicembre, 19.32

Il Madison Square Garden si riempie lentamente. Qualcuno arriva addirittura a metà tempo: come se no andasse a una partita, ma al supermercato. Ci sono hot dog e bibite zuccherine ovunque (persino sul fondo del mio sfortunato zaino). Ci sono cinque casacche chiare, sul legno, di sotto, che fanno a spallate e si portano via un 113-110 da battaglia. (Povero ‘Mago’: 41 punti e retine forate da qualunque posizione non sono bastati.) Uno spettacolo esaltante, completo di City Dancers, let’s go Knicks, de-fense, asciugamani sparati col fucile, basket infantile, polipropilene agitato dietro il canestro e davanti alla lunetta del nemico.

Così come esaltante è Central Park, il bosco dentro il bosco di grattacieli, con gli scoiattoli che si mettono in posa, i ciclisti ed i maratoneti che si allenano, signore a passeggio, specchi d’acqua ghiacciata, il cinguettio nel rumore del traffico; Steven lo strabico che ci consegna due bici sgangherate, da pulire e oliare: bici che saltano i denti ma mordono il parco.

È con una di esse che Matteo travolge il cane inebetito di un settantenne upper-class, che, accecato dall’ira, prende a calci bici e Matteo, inciampandosi nelle ruote, cadendo a terra, roteando il cane e il colbacco e minacciando mosse da boxeur tra la nostra pazienza che va perdendosi: lasciando spazio a lui (“fottuto vecchio pazzo”), al cane (“quel topo”) e a Steven e gli altri ragazzi senza licenza, pacieri improvvisati pena la giornata di lavoro nero.

E tra l’uno e l’altro, tra gli uni e gli altri, quel distributore verde e giallo di benzina dove passiamo sempre in mezzo a cento taxi; il commercio di SoHo, il sole pacifico di Harlem, la tensione malinconica del Bronx. New York, New York, la babele per dotti e bifolchi, da ingoiare a volontà, distaccata e affabile com’è.

New York se ne va per conto suo. E noi al ritmo.






11 dicembre, 2.32

New York è anche un’America di menomati, di ipertiroidei, di disperati che appestano le stazioni, di pazzi che alitano addosso alle ragazzine e bevono da bottiglie avvolte nella carta. Di vecchi che ti aggrediscono al parco e negri spiantati che ci ridono su. Di uomini d’affari in alberghi da due soldi. Di ex bambole impellicciate che tengono comizi alla televisione.

La faccia placida di un paese convinto, un po’ ottuso e senza senso dell’umorismo.

È un bar nascosto dietro la cabina telefonica di un venditore di hot dog, premio agli appassionati di spionaggio.

O un mercato nel quale, tra il ciarpame (solito) di lana e ceramica, trovi una versione di Scott Fitzgerald da portare al dito.

Le decine di suonatori che il venerdì assediano il metró - bambini, asiatici vestiti da robot, vecchi bluesman negri - forse non si sono nemmeno resi conto, come me, del resto, che la redazione del New Yorker è di fianco a quel palazzetto metropolitano che è il Madison Square Garden. Che la redazione del New Yorker è un hotel. Che la redazione del New Yorker è ospitata in un edificio per il quale sono passati Batman, Alec Baldwin, King Kong, i Ghostbusters.

Proibito, e forse per questo affascinante, il senso di appartenenza. L’avranno mai potuto vivere, i nostri Amerigo?







12 dicembre, 15.18

La targhetta nel bagno della nostra stanza recitava “Save our planet”, alludendo al consumo di acqua necessario al lavaggio degli asciugamani usati (e magari riciclabili). Il paese del consumo, del petrolio ad alto uso e alto (per gli altri) costo, della raccolta indifferenziata, delle discariche più grandi del mondo propone una soluzione per “salvare il pianeta”! This is. Nel frattempo, Navy e Army giocano a football tra loro, in un campionato nel quale nessuna delle due squadre sta vincendo (ah, benedetti sintomi); la spunta Navy, nonostante i commoventi spot dei supporter di Army: bimbi che hanno perso il padre, mutilati, rassicuranti attori.

Nel frattempo, un quarantenne pelato e molto brutto, forse italiano, adesca nel metró una ragazzina negra con lo sguardo triste e l’aria assente, di quell’assenza dettata dalla distanza, dal desiderio di sparire. Lui le fa vedere, sullo schermo dell’iPod, che canzone sta ascoltando. Pare noiosa; accenna passi di danza. La bambina ho un sussulto, la bocca si allarga in un sorriso: mostra lui il suo telefono, le sue canzoni. Lui guarda; continua a ballare, con le sue cuffie. Lei torna nella sua apatia. Lui la cinge e la spinge verso la porta del vagone.

“Scappa”, penso. Ma penso pure che andranno a casa insieme. Lo guardo severo. Lui se ne accorge. Scendiamo.


Postilla: aeroporto. Piove nel vento, noi ce ne andiamo. Abbiamo preso quel che ci è stato concesso: in parte già imbarcato nella stiva.

Ora, a casa.

mercoledì 22 dicembre 2010

Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.

lunedì 29 novembre 2010

Wikifreaks.

La Repubblica on-line, citando Wikileaks, rivela, nell'ordine, che:


Berlusconi è "incapace, vanitoso e inefficace come leader europeo moderno", "fisicamente e politicamente debole" (le "frequenti lunghe nottate e l'inclinazione ai party significano che non si riposa a sufficienza"). Il "portavoce in Europa" di Putin (definito a sua volta "alpha dog"), in un rapporto sostanziato da "contratti energetici lucrativi" talvolta mediati da "misteriosi intermediari". (Galliani e Braida?)


L'amico Putin: il Batman di quello che sarebbe "virtualmente uno Stato della mafia", nel quale Medvedev, che dal punto di vista istituzionale è sopra di lui, è il suo Robin. (Molto poetica l'immagine di Medvedev pettirosso, erede bucolico dell'orso alticcio Eltsin).


Hamid Karzai è "ispirato dalla paranoia". Angela Merkel è "raramente creativa" (probabile riferimento ai tailleur). Muammar Gheddafi è "un vero ipocondriaco".


I diplomatici stranieri all'ONU sono sotto osservazione statunitense da un anno e mezzo. (Solamente?)


"Una rapida guerra convenzionale con l'Iran sarebbe meglio delle conseguenze a lungo termine di un conflitto nucleare" (la "n" è un refuso, o ai tempi dell'Iraq ci credevano veramente?).


Mancano solo "Dell'Utri mafioso" e "Paolo Rossi campione del mondo".

Qualcos'altro di nuovo, oltre alle conferme? È come se avessero costretto Henry Kissinger a cantare. Adesso aspettiamo il turno di Andreotti.

mercoledì 10 novembre 2010

Le giuggiole del Movimento Sociale.

Dice Bocchino, commentando il voto di Futuro e Libertà, contro il governo, su tre emendamenti riguardanti il trattato Italia-Libia: «Abbiamo detto che abbiamo le mani libere…».
Libere: si fa per dire. Dove erano i signori di Futuro e Libertà sei mesi fa, quando il governo si muoveva con disinvoltura su talune cose (essenziali solo per il presidente) e stava immobile su altre (fondamentali)? "Dov'eri, Adamo?". C'era forse bisogno dell'interprete? O dobbiamo accogliere quest'ultimo sussulto democratico come una presa di coscienza della propria ignavia pregressa? Sarebbe, nel caso, un'ammissione di colpa davvero onorevole.
Ma questa frizzante commedia romantica tra ex amanti ricorda allegramente il "Berlusconi mafioso" e il "Mai più col signor Bossi" di quindici anni fa.
«Dobbiamo far capire a Berlusconi che senza i voti Fini non va da nessuna parte», dice Bocchino. Questa è la realtà. Ed ha il sapore ricattatorio dell'avvertimento. Probabilmente il prologo ad un mercanteggiamento.
Delle due, infatti, l'una: o Fini gonfia il petto per portare a casa, in una sorta di bluff, in piatto che sia il più ricco possibile, al tavolo del Grande Capo; oppure l'ex missino crede veramente, in barba pure al porcellum, di poter governare senza Berlusconi (e senza sinistra, of corse).
Siccome il Partito Democratico nemmeno alita più, in tanti, all'opposizione, aspettano i movimenti (sociali?) di Fini come il vaticinio del profeta.
Qualcun altro, invece, teme i brividi delle profezie.

venerdì 5 novembre 2010

La mia terza pubblicazione da primo autore.

La mia seconda pubblicazione da primo autore.

Vabbè, ma di morte lenta.

[Bastasse un requiem (riposi in pace)]

Colpisce basso l'ennesima morte bianca. Ancora più in basso, sotto i tacchi e il morale, va la consueta iniezione di vuota retorica. I nostri cantieri sono pieni di brava gente. Gente che lavora duro, che sa il fatto suo; gente coi bimbi a casa, con compagni e compagne, con genitori, amici, affetti. Gente che certo non vuole lasciare la scorza sotto un muro. Eppure. Eppure si continua a restarci ammazzati. E troppo spesso per leggerezze: per negligenze (gravi, e da perseguire) dei datori di lavoro; per avventatezze dei lavoratori (tanto più in pericolo quanto più sicuri di sé).Chinarsi sotto 1500 kg di porfido nel tentativo di capire il motivo per il quale un sollevatore si è inceppato non è "un gesto quasi istintivo per chi è abituato a lavorare sodo e a non rimanere fermo un attimo", come si legge sui quotidiani locali. Diamine, no. Chinarsi sotto quei 1500 kg è fretta (una volta si chiamava cottimo), eccessiva baldanza, parziale irresponsabilità, mancato controllo, inadeguatezza dei mezzi, e così via.Con la cultura dell'abitudine e del "cosa-vuoi-che-succeda" non si va da nessuna parte: i 'gesti quasi istintivi' non devono avere spazio sul posto di lavoro. La leggerezza va disincentivata. Occorrono autocontrollo e controllo, rigore e consapevolezza.La cultura del lavoro non è folklore: e nemmeno crepare lo è.

giovedì 28 ottobre 2010

Ruby, "la nipote di Mubarak". Marocchina d'Egitto.
La pratica del "bunga bunga": import-escort libico.
Versioni dei fatti incredibili, che coinvolgono nomi noti come in un film di Natale.
Un vecchio porco incontinente.

Non se ne può più.

giovedì 21 ottobre 2010

L'avevo detto, io.

Se il vegetariano si converte
"La carne fa bene al pianeta"

Il caporedattore del magazine ambientalista "The Ecologist" cambia dieta e, dati alla mano, spiega: "Mi sento più ecologista di un vegano". Ma non tutti sono d'accordo: "Il vegetarianesimo è una scelta di vita, chi consuma carne inquina di più"

MANGIARE carne non è detto che faccia male al pianeta, anzi. A lanciare la provocazione è l'ecologista Simon Fairlie, caporedattore della rivista inglese The Ecologist 1ed ex vegetariano. "Non ho toccato carne dai 18 ai 24 anni - racconta in un'intervista al Time - poi ho cominciato ad allevare capre. Ma dei maschi non sapevo che farne: non producevano latte, non facevano figli. Così ho cominciato a mangiarli". Parole forti, perché dette da un uomo che da 30 anni, fra inchieste e approfondimenti, si dedica alle problematiche ambientali. E che ora ha deciso di mettere nero su bianco il suo nuovo credo dando alle stampe il libro "Meat: A Benign Extravagance" (ed. Maddy Harland, 19,95 £).

Incalzato dalla collega del
Time Tara Kelly, Fairlie spiega che è possibile coniugare un serio impegno ecologista con il piacere di una bistecca alla fiorentina: "Mangiarne moderatamente, due volte a settimana, non provoca alcun danno al pianeta. Tutti i sistemi agricoli producono un surplus di biomassa che deve essere smaltito, e non vedo cosa ci sia di male nel dar questo sovrappiù come foraggio agli animali. Questo modo di allevare il bestiame è ecologico e anzi fa bene alla terra. Capre, pecore e mucche producono a loro volta un fertilizzante naturale utile agli agricoltori. Il ciclo è perfetto. E io mi sento più ecologista di un vegano".

Pochi mesi fa conclusioni simili sono state raggiunte da una
inchiesta del New Scientist 2. Eppure il rapporto 2006 della Food and Agriculture Organization ha stabilito che l'allevamento di animali per la produzione di carne produce il 18% delle emissioni di carbonio annuali globali. "Un dato che contiene degli errori di base - continua Fairlie - perché parte dal presupposto che gli allevamenti portino per forza di cose alla deforestazione. Non è così. La scienza ha anche calcolato che, per produrre una porzione di carne, vengono consumate piante utili all'uomo in un rapporto di 5 a 1. Ma anche questo dato è controverso: allevando gli animali con vegetali non commestibili per noi, la proporzione scende a 1,4 su 1".

Fairlie fornisce anche indicazioni precise sui tipi di carne che è bene consumare per diventare un buon "onnivoro ecologista": sì a quella di maiale, perché questi animali consumano rifiuti di ogni tipo, e sì anche alla carne di mucca, a patto che sia stata allevata nei prati. "Una dieta con troppa carne fa sicuramente male - spiega il professor Pietro Migliaccio, presidente della
Società Italiana di Scienza dell'Alimentazione 3- ma per avere un'alimentazione equilibrata occorre mangiare la carne almeno due volte a settimana. E dell'impatto ambientale non mi preoccuperei: la dieta mediterranea "inquina" il 50% in meno di quella anglosassone, e questi sono dati ufficiali che porterò a Rio De Janeiro il 26 ottobre, in occasione della giornata mondiale della pasta".

Ma secondo il presidente dell'
Associazione Vegetariani Italiani4, Carmen Somaschi, il discorso del giornalista di Ecologist parte da un presupposto sbagliato: "Quella di diventare vegetariani è una scelta etica - spiega - e quindi o la si accetta in toto o niente. Anche mangiare carne solo due volte a settimana danneggia il pianeta, perché finché ci sarà chi la consuma ci saranno gli allevamenti. Studi autorevoli hanno dimostrato che l'impatto ambientale di una persona che mangia carne è pari a quello di 10 vegetariani: per conservarla si usa il frigo, per smaltire i rifiuti animali si inquinano le acque. Io non critico chi mangia carne, dico solo che consumarla è oggettivamente dannoso per l'ambiente". La Somaschi ricorda che quando l'associazione è nata, nel 1952, in Italia i vegetariani erano un pugno di emarginati: "Ancora nel 1980 ci buttavano fuori dai ristoranti. Oggi, solo nel nostro Paese, siamo 7 milioni e mezzo. Abbiamo fatto tanto per arrivare fin qui, trovo ingiusto che il nostro impegno etico e pratico venga screditato con provocazioni fuorvianti".

Dello stesso parere il medico Luciana Baroni, presidente della
Società Scientifica di Nutrizione Vegetariana5 e autrice di "VegPyramid - La dieta vegetariana degli italiani" (Ed. Sonda, 190 pp.). Secondo la Baroni, "la scelta di non mangiare carne è prima di tutto personale, legata alle motivazioni le più varie. Ma diventa una questione sociale quando si capisce che, se tutti si comportassero nello stesso modo, l'habitat degli esseri viventi verrebbe salvaguardato". Quanto alla salubrità di una dieta vegetariana, la nutrizionista ricorda che esistono comunità che naturalmente non mangiano carne e che sono le più longeve del pianeta, come gli Hunzas, i Vilcamba o gli Okinawa. "Purtroppo - conclude - oggi la tendenza è quella di mediare tra la volontà dell'onnivoro di non rinunciare alla carne, il bisogno della produzione di non rinunciare al profitto, e le motivazioni ecologiste. E' chiaro che in quest'ottica si cerca di dire che la carne va ridotta, e questo è certo giusto, ma è solo il primo passo, bisogna andare oltre". La Baroni conclude ricordando che il rapporto di conversione medio vegetale-animale è di 15:1, il che significa che occorrono 15 kg di mangimi per produrre 1 kg di carne. "Capisco che possa dar fastidio a chi trae enormi profitti da questi sprechi. Ma questi sono i dati", conclude.



[SARA FICOCELLI su "la Repubblica" on-line, 20 ottobre 2010]

martedì 12 ottobre 2010

Al di là del bene e del male #4.

Avvilente. Spaventoso. Deprimente.
...così come un inseguimento di insulti, offese, minacce.
Così come un pugno che ti manda in coma dopo un diverbio alla stazione della metro.
Ed i passanti che, appunto, passano. Scansando il corpo a terra. Accelerando il passo. Voltando appena la testa. Al limite, fermandosi un istante, come turisti per poi riprendere la strada.
Dittatura dello smarrimento, cioè violenza che fa violenza.
Basta, per carità.

lunedì 11 ottobre 2010

Al di là del bene e del male #3.

Se il mio amico venisse aggredito e picchiato a sangue perché "andava troppo forte", ora piangerei.
Se il mio compagno venisse preso a calci mentre è a terra, inerme, perché ha investito un cane, ora piangerei.
Se a mio padre venissero lesionati la milza e un polmone perché è sceso dalla sua auto spaventato, ora piangerei.
Se mio figlio venisse mandato in coma perché ha incontrato un tizio che si sente un giustiziere, ora piangerei.

Se mio figlio, mio padre, il mio compagno, il mio amico - se uno di loro riducesse in fin di vita, per le botte, un altro uomo, io ora piangerei.

Non ho fratelli né padri che farebbero una cosa del genere, e non ho amici o compagni cui è capitato questo; eppure prima ho quasi pianto.

Perché ben oltre le responsabilità, i fatti accertati e da accertare, le provocazioni, l'accecamento della rabbia, molto prima di tutto questo e molto più in là, c'è una terra massacrata dal dolore. Giornaliero. Dalla paura. Dalla violenza che dalla paura è generata. Dalla quotidianità della prepotenza.
Una terra spaventosa.

sabato 9 ottobre 2010

C'è anche, poi, tanta, delicata,
dolcezza.

giovedì 7 ottobre 2010

...e intorno, intanto, tutto prosegue come se nulla fosse. E alcuni altri mi parlano facendo finta di niente, o proprio non capendo. Avanti tutta.

Provando a guardarle dall'esterno, vedo le mie sensazioni cristallizzate in piccole pezze, stese alla brezza come la biancheria. Si agitano un po', rigidamente, ed i bambini ci corrono in mezzo. Vorrei raccoglierle e riprendermi la mia vita.
Perché ho dei bei progetti, per la mia vita.
Ed il lavoro, in essi, se non è un fatto accessorio, neppure è il centro (spirituale).

mercoledì 6 ottobre 2010

Sono schiavo del lavoro, nel senso che sono da esso imprigionato; anzi, preso in ostaggio: da capi senza cravatta e geografie inaccessibili.
Cosa ha più peso? La qualità del lavoro o quella della vita? Come interagiscono le due cose? E come si può farle interagire?
Mi sembra che i compromessi possano diventare pregiudizi.

E attendo. Un'offerta chiarificatrice che chiarificatrice facilmente non sarà. L'evento che mi spinga in una direzione.

Per fortuna qualcosa, nella frana, resta fisso, gagliardo, contro la corrente. Ed io mi ci posso pur sempre aggrappare.

mercoledì 29 settembre 2010

Numeri da capogiro.

Forse per questo la gente si confonde.

martedì 21 settembre 2010

A. entra. Guarda la seggiola vuota. La indica col dito. Guarda me. Io la guardo. Levo la cuffia destra; sento Siver Machine a metà, circa. Rivolgo ad A. uno sguardo interrogativo. «C'è E.?», mi chiede. Non riesco a rispondere che «No». Per non violare l'ovvietà. A. se ne va.

mercoledì 15 settembre 2010

Gli specialisti: morto un Papa, era polacco.

Lech Walesa a Trento.

Se dovesse salvare qualcosa del comunismo cosa salverebbe? «Niente. Guardi, non si può restare incinti un po'. Voglio dire che il comunismo era l'assenza di libertà e quindi non c'è nulla che si possa salvare. Niente di niente. Del comunismo sovietico, poi, proprio nulla. Voi, in Occidente, avete conosciuto un comunismo diverso, nulla a che vedere con quello russo». E adesso la Russia vi fa ancora paura? «La Russia ha cominciato a capire bene da poco quello che noi avevamo capito molto prima, ossia che il comunismo non può funzionare. C'è stata e c'è una lotta continua tra i territori nuovi, questo è il problema di oggi. Alla fine del ventesimo secolo hanno cominciato a capire che il comunismo è da buttare in toto, ora invece bisogna cercare di mantenere la pace e lavorare con la diplomazia. Quello che noi abbiamo adesso nasce dal cammino che abbiamo compiuto, dal progresso della democrazia. E in tutti i paesi dell'Est Europa pian piano si sta affermando». Non è più tempo di rivoluzione. Ma lei lotta ancora? «Sì, adesso ci sono obiettivi diversi. A quell'epoca c'era un sistema sbagliato da rovesciare. Adesso invece bisogna lottare contro le guerre e le divisioni e per un nuovo sistema di pace dei territori».

Bravo, Lech, bravo. Perché invece il capitalismo è il Bene.

Bravo, Lech, il rivoluzionario. Il rivoluzionario di una rivoluzione che senza il Vaticano non ci sarebbe stata. Vaticano e rivoluzione: azione e reazione.

Bravo, bravo, Lech. Ma ora lasciami in pace.

martedì 14 settembre 2010

Uno spiacevole equivoco.

Benedetto, maledetto Canale di Sicilia: non ti bastano i disastri aerei.
Domenica sera, il 12 settembre, una motovedetta libica, ceduta dalla guardia di finanza italiana a Gheddafi (quello dei cammelli, le tende in centro a Roma e le 300 amazzoni da 40 euro) e con a bordo -pare- sei militari italiani, ha mitragliato un peschereccio italiano.
L'Ariete, così si chiama il peschereccio, non si sarebbe fermato all'Alt! intimato. In acque internazionali, ovviamente. Il suo capitano ("sapendo quello che ci aspettava", ha detto; già questo mette i brividi) non ha risposto all'ordine, e anzi ha messo il motore a tutta. Dire che non ha risposto all'ordine, in realtà, non è corretto: Gaspare Marrone, il capitano, ha avuto uno scambio (in italiano) con uno dei militari, pare il comandante della motovedetta, al quale ha detto di essere un pescatore al lavoro. Evidentemente, il dialogo non ha convinto il militare. Né Marrone: anche perché quest'ultimo sosteneva (a ragione, credo) che i militari non avessero alcun diritto di fermare il peschereccio. I libici, però, la pensavano diversamente. E la loro brillante idea è stata quindi quella di sparare ad alzo zero; sulla cabina di comando. I classici colpi d'avvertimento in aria, insomma.
L'interpretazione dei fatti di Maroni, il Ministro degli Interni, è sconcertante: quel gran brav'uomo pensa che i soldati «abbiano scambiato il peschereccio per una nave che trasportava clandestini». In effetti questo, indubbiamente, li giustificava ad aprire il fuoco.
E se i militari avessero invece pensato che a bordo del peschereccio ci fosse Giuliana Sgrena?
Da qualche tempo, in calce alle e-mail in uscita, ho inserito, fra le altre, una frase di Carlo Marx: «Di buone intenzioni è lastricata la strada per l'inferno».
Riflessione: figurarsi delle cattive.

mercoledì 8 settembre 2010

Ante-democrazia.

È vero: urla, fischi, fumogeni - l'impedimento violento - non sono cosa democratica. Anzi, odiosa, a volte disgustosa, spesso noiosa nella sua inutile arroganza.
Ma è pure vero che è inammissibile che, durante una Festa Democratica (quella che una volta, ahimè, era la Festa dell'Unità), siano programmati gli interventi di un servo, mafioso, del potere (Renato Schifani) e di un servo, crumiro, del potere (Raffaele Bonanni). Gente che ha già fin troppo spazio nel proprio campo, perché invada inopinatamente anche quello altrui. Gente che non ha nulla da dire di diverso da quanto blatera nell'adempimento del suo meschino dovere di servo.

lunedì 30 agosto 2010

I nuovi dittatori: elogio del dilettantismo.

Berlusconi e Gheddafi sono come una brutta copia di Mussolini e Hitler: le pompose parate militari sono sostituite da drappelli di ragazzotte (mal) pagate.

La vera genialità di Berlusconi sta nel saper rendere tutto ridicolo e, di conseguenza, impossibile da affrontare con un minimo di serietà.

Mi adeguerò utilizzando un naso da clown.

lunedì 23 agosto 2010

Il Gattopardo, ovvero: nessun cambi.

Bocchino su Berlusconi: «L’unica strada che ha è appellarsi al Parlamento come gli ha consigliato Casini per varare un nuovo governo con un profilo alto e riformatore e una maggioranza più ampia, costruendo una nuova coalizione che comprenda i partiti di Fini, Casini e Rutelli e i moderati del Pd ormai delusi».


Un nuovo governo con un profilo alto e riformatore.

Casini. Rutelli. I moderati.

I moderati!

I moderati. Ma moderati da chi? Maurizio Costanzo?

Eccolo qui, il braccio di ferro: a metà tra Sylvester Stallone e Massimo Scattarella. Ma vaffanculo, va’. Impostori.

giovedì 19 agosto 2010

Volti noti.

Vecchio blog, volto nuovo.
The Italian style, baby.

mercoledì 18 agosto 2010


Cinque anni.
Cinque anni per davvero.
Ed ora sei andata via, così, e quasi nemmeno ho avuto il tempo di salutarti.

Buon viaggio, amica mia.

domenica 8 agosto 2010

Marrakech Express.




21 luglio, 10.57

Tangeri è ruvida.

Ci hanno accolto i suoi poveri invadenti ed i suoi clacson agitati. Da principio, forse a causa della nostra scarsa attitudine o di quella carenza occidentale di preparazione che non concede scampo, abbiamo cominciato a percepire una tensione continua e in crescita. Fino al culmine dell’aggressione di un vecchio dal muso scalcagnato. «Che ore sono?» «Italiani?» «Ho un fratello in Sardegna» «Italiani, spagnoli e portoghesi, brava gente» «Potreste andare lì, ma è caro; meglio qui dietro, vi accompagno». E, alla nostra battuta in ritirata, insulti. «Io sono un uomo, questo è il mio paese, ci dovete rispetto, voi siete ospiti». Il tutto all’indirizzo di Chiara. Il rispetto, già. Il rispetto dei razzisti della situazione.

Poi qualche birra. Ne bevessero qualcuna in più o in meno anche loro, magari sarebbero più tranquilli.

Probabilmente no.

È questa città di confine che travolge e che trabocca, anche da se stessa. Infine la terrazza del Continental, dove puoi lasciarti riposare sotto la brezza e le insegne dell’hotel, e magari fumare con calma, al verde delle tegole e al blu delle vetrate.

E al risveglio ricominciare da capo.







22 luglio, 15.26

Il Marocco è una monarchia basata sulle mance. Questo penso, mentre un taxi con sette persone a bordo ci porta fuori strada, a chilometri da dove dovremmo andare, e dopo aver sganciato monetine e banconote a destra e a manca.

Restiamo in sospeso, come gente sulla porta, tra l’accoglienza e la rudezza, l’ospitalità e il raggiro.

Appena finisci il the alla menta, le api cercano di mangiarsi il bicchiere e si aggrappano alle foglie. Chissà che non le portino i bambini che provano a vendere fazzoletti Tempo ai tavolini. Api insistenti e gente insistente, affabile e maleducata, disponibile e scontrosa.

Sul chi-va-là, sotto una lieve continua tensione, non riusciamo a capire quando la cortesia è genuina e quando, invece, interessata. Nel dubbio e nell’incertezza, sganciamo; e loro insaccano, come se il debito dell’Occidente nei confronti dei loro connazionali di un passato non meglio precisato si potesse saldare a monetine.

Ci riconciliamo con il paese, insetti a parte, ogni volta che sediamo al tavolino a bere the.

E allora ci soffiamo via la sabbia dalle dita dei piedi e andiamo avanti per la nostra strada, verso sud.






24 luglio, 18.19

Forse abbiamo imparato a trattare con i maroquains che ci importunano per strada, millantando parenti in Italia e promettendo aiuto sicuro: sorridiamo, parliamo molto e confusamente e tiriamo dritto tranquilli, con l’aria di chi sa perfettamente quello che fa.

Anche se, magari, stiamo andando ad ovest mentre dovremmo andare ad est.

Sicuramente, ora come ora, gli scocciatori sono diminuiti. Forse perché siamo più sicuri e consapevoli; forse perché la nostra pelle ora è più scura, e i capelli più crespi. Forse perché è sabato.

Stasera ci infileremo tra le fughe delle piastrelle colorate di un riad nei pressi di Bab Al-Okba e ci lasceremo sfamare, mentre altra gente come noi, al piano di sopra, dormirà, si laverà, leggerà, aspetterà, farà l’amore. I riad sono come uccelliere: lo spazio del cielo è circondato da gabbiette istoriate nelle quali gente come noi fa l’amore, legge, dorme e così via. Fino a quando, nel bel mezzo della notte, il muezzin ti ricorda, col suo canto, dove sei. E tu lo benedici, bevi un goccio d’acqua, ti alzi, fai pipì, ti corichi, abbracci la persona che ami e ti addormenti sereno.






27 luglio, 18.16

Fèz offre un clima più disteso, ed addirittura il desertico vezzo di un temporale che fa saltare la luce.

Sediamo ai tavolini, come prima, con uno spirito decisamente meno guardingo.

Il nostro modo di essere turisti ha ripreso quel ché di coloniale e spensierato che forse ci eravamo immaginati, in parte, prima di lasciare l’Italia.

Quindi ci concediamo pure il lusso di farci intrattenere da un venditore di tappeti che ci suggerisce di lasciare la medina per trasferirci nelle piscine della fresca periferia, o da un passante che nell’ora della siesta ci vende cartoline conto terzi e poi prova a caricare nella nostra valigia anche una lampada, impolveratissima, di piombo e vetro colorato.

La fortuna di questa città, e il suo sorriso, sono i bambini che escono dalle botteghe per inseguire altri bambini, giocare al pallone, dimenticare i freni della bicicletta, parlarti dell’Inter o guidarti verso casa sollevando la tua valigia.







28 luglio, 21.27

Omar grida «barba!». Così ci fermiamo, infine, ancora, e ci giriamo, stanchi per il grande caldo e per l’ennesimo richiamo per la strada. Ci raggiunge uno spilungone barbuto, con la camicia aperta, i calzoncini da spiaggia e le ciabatte di gomma che si trovavano al lido dieci anni fa.

«Cosa ci fate qui?»

«Andiamo in giro. E tu?»

Omar ha lavorato sul lago di Garda; snocciola un po’ di nomi, come le uscite di un’autostrada: Salò, Desenzano, Sirmione, Peschiera. Mi domanda dove ho preso le scarpe con le dita. Riva. Salò? No, Riva. Cominciamo a camminare per il mercato della medina nuova, oltre la mellah. Poi Omar sancisce che è troppo caldo e ci fa fermare all’ombra di alcuni tappeti per raccontarci che ha lavorato con Claudio Fava, il figlio di Nuccio, quello ucciso dalla mafia.

«Anch’io sono in vacanza qui.»

«È normale che ci sia il temporale?»; non mi risponde, forse perché è troppo caldo, ma poi vuole sapere se quest’anno ha fatto molta neve in Italia.

No.

Allora venite al mio bar, ci dice. Compra una bottiglia d’acqua per la strada e ci guida, attraverso la frescura di un mercato appena chiuso, verso il whisky berbero. Non riusciamo a capire, esperti come siamo, se vuole davvero offrirci the alla menta o piuttosto farci annusare il filo di un coltello. Lui in tutta risposta saluta una signora e ci spiega che qui, nelle vie dove è nato, è famoso come la Coca-Cola, per via delle foto di quando lavorava con Fava, ai tempi di Martelli, prima di Tonino Di Pietro.

Quindi si infila nel corridoio buio di una casa e la sensazione della lama sotto il naso si fa più affilata. Niente da fare. Entriamo veramente in un circolo, dove dei ragazzi pelati guardano avvinti una partita del Santos in Arabia Saudita.

Parziale: 1-0.

Omar rinfresca con Chiara la geografia bresciana e ci parla del re e della corruzione marocchina. Il tempo di una telefonata berbera e siamo di nuovo per la strada, per imparare a fare il the alla menta.

Nei vicoli, il nostro ospite ricorda i fasti del Genux e del Number One, mentre salamelecca ragazzotti ingellati e occhialuti commercianti. Fino a quando i negozianti non diventiamo noi, dietro al banco di uno speziale che ci vende, in quella che ormai è la consuetudine del conto terzi, the, menta e argilla berbera per i capelli. Cinquanta dirham per lui, e trenta per Omar: quaranta, così anche l’acqua è bevuta. Lo salutiamo nella consapevolezza cordiale che non lo rivedremo mai più e facciamo sparire la nostra ombra, sotto il sole, tra il giallo polveroso dei cortili reali.







30 luglio, 8.10

L’uomo è arrivato col suo cartello, ha chiesto, se n’è andato.

Noi in attesa, da tre ore, alla stazione, dopo una notte sul pullman a contare le stelle tra Fèz e Marrakech.

L’uomo, quello arrivato e andato, doveva prelevarci e portarci fino al nostro riad. Niente da fare: il ritardo del pullman è stato fatale ai nostri sogni di materasso e alla breve pazienza del nostro anfitrione.

«Italiani: piano piano», dicono qui. Brava gente. Ne hanno presi, di calci nel culo, ma più piano degli italiani vanno i marocchini. Tutti per strada per tutta la notte, ma mai all’appuntamento.

Alle 8.00 del mattino sono aperti solo i caffè e le stazioni. E noi aspettiamo, piano piano.

Antefatto 1. Afro guy vende argento alla libbra su Taara Kebira ed ha imparato a starsene pacifico sull’uscio a suonare e battere la chitarra. Di sera si sposta a monte, al Cafè Clock, per suonare con quel calciatore brasiliano di cui non ricordo il nome e con altri rastamanni maghrebini. E il Cafè si anima di ogni genere di turista, tra cui il prototipo famiglia nordica con bambini biondi perplessi ed il prototipo vegetariana rasta italiana che si mette subito scalza per tastare le mattonelle con le sue sudicie ditina e creare immediatamente un ponte culturale tra lei ed il Nordafrica tutto.

Ore 8.28: Camilla sogna ancora, beata.

Antefatto 2. «Qualche problema?» «Come?» «Mi guardavi; qualche problema?» «No». Sorrido. A parte il fatto che sei un truffatore ed un buono a nulla, penso. Sorrido più largamente. «Sono quello del taxi». Sì, appunto, lo so bene chi sei: lo so, caro il mio coglionazzo. Quello che ha provato a portarci chissà dove con un taxi non suo e al nostro rifiuto ci ha cordialmente maledetti.

Ore 8.31: Camilla si è svegliata.

L’uomo è ad addomesticare cammelli in cortile. Noi aspettiamo.







1 agosto, 18.36

Marrakech, ovvero la città delle moto. Principalmente delle motorette MBK: pilotate, affittate, imprestate, cavalcate, riparate, ingolfate, mal governate da giovinastri, ragazzette, vecchi con occhiali a fondo di bottiglia, donne tuareg con velo integrale.

Il sole del deserto brucia anche in città; ma nel deserto probabilmente non ci sono i giovani villani che dicono dietro a Chiara o i bambini che ti indicano La Plaza.

A proposito di quest’ultima: è quella degli ebrei che vendono lampade industriali, o quella sovrastata dal grande minareto della Koutubia; o ancora l’enorme e instancabile circo di incantatori di serpenti, donne che impongono la pittura dell’henna, venditori di succo sepolti dalle arance, vecchi a sonagli, moto MBK (sic!) e turisti spauriti che è la Djemaa el-Fna.

O magari il patio triste, imbiancato a festa, di qualche squallido riad ben spacciato dagli anglofoni della Lonely Planet, dove tovaglioli impolverati e cuscini lisi saltano più all’occhio di drappi, piatti dorati e scimitarre incrociate.

O l’acqua blu di una piscina che fa da instabile e fluttuante pavimento al patio candido del nostro riad, che di liso e sporco ha nulla e che, anzi, ci affranca, a sera, dalle fatiche di un caldo inedito.

Marrakech è la più europea di tutte le nostre città marocchine. Eppure nasconde nei suoi vicoli la sinagoga inesistente di una mellah litigiosa, o tombe dimenticate di sultani le cui spoglia sono state scordate prima dei loro altisonanti nomi. Marrakech è un meltin’ pot scomposto, nel quale i vizi e le virtù di un popolo disordinato, maschilista e arruffone sono a tratti mitigati, a tratti esaltati dall’incontro con un Occidente sbadato, sorpreso e spossato, finito qui per caso o per confusione. Marrakech è il centro centrifugo di un paese che è contemporaneamente cuoio e plastica, gioiello e bigiotteria, ricamo e stampa industriale; è il motore di due ruote che girano in verso opposto, convulsamente, per andare avanti restando sempre allo stesso posto.