domenica 25 novembre 2007

Tremolio di giganti

«Si era in attesa di una commissione sanitaria che doveva decidere sui fondi dell’ospedale, sulla non idoneità al lavoro dei ricoverati, nonché sul loro sostentamento. Una voce arrivata da altri ospedali sosteneva che lì sarebbero rimasti solo quelli che tremavano in tutto il corpo. Agli altri avrebbero dato una somma di denaro e forse una licenza per chiedere l’elemosina con un organetto a manovella. Neanche parlarne, dunque, di una rivendita di francobolli o di un posto di custode in un museo.
Andreas cominciò a rammaricarsi di non tremare in tutto il corpo. Tra i centocinquantasei ricoverati del XXIV ospedale da campo uno solo tremava, e tutti lo invidiavano. Era un fabbro che si chiamava Bossi, di origine italiana, nero, truce e con le spalle larghe. Una pesante ciocca di capelli gli scendeva sugli occhi e minacciava di estendersi su tutta la faccia, di invadere la fronte bassissima e di arrivare a coprire le guance per poi congiungersi con la barba arruffata.
Il male di Bossi non attenuava lo spaventoso effetto della sua forza fisica, anzi la rendeva ancora più sinistra. Quando corrugava la fronte, quasi la faceva scomparire fra le sopracciglia cespugliose e l’attaccatura dei capelli. Gli occhi verdi uscivano dalle orbite, la barba vibrava, si sentivano sbattere i denti. Le gambe possenti si piegavano in dentro fino a quando stabilivano un breve contatto tra le rotule, ma subito dopo scattavano di nuovo in fuori, le spalle erano scosse da grandi e violenti sussulti, e intanto il capo poderoso seguitava ostinatamente a oscillare piano, come per dire no, simile in tutto alla testa penzolante delle donne anziane. I movimenti ininterrotti del suo corpo impedivano al fabbro di parlare con chiarezza. Schizzavano dalla sua bocca frasi smozzicate, sputava qualche parola singola, e poi, dopo un attimo di silenzio, ricominciava da capo. Che un uomo così robusto e possente non potesse fare a meno di tremare in quel modo rendeva la ben nota malattia più paurosa ancora di quanto già non fosse. Tutti quelli che vedevano come il fabbro tremava erano presi da una grande tristezza. Era come un colosso vacillante su un terreno malsicuro. Tutti aspettavano un crollo che sembrava imminente e non veniva mai. Era incredibile che un uomo di quella stazza dovesse dondolare di continuo senza rovinare al suolo; se finalmente fosse crollato a terra, per lui e per chi gli era vicino sarebbe stata una liberazione. In presenza di Bossi, perfino gli invalidi più disgraziati, quelli colpiti alla spina dorsale, si sentivano invasi da una paura sconfinata, come di fronte a una catastrofe incombente che però non si decide ad esplodere; eppure se esplodesse sarebbe una liberazione.
Chiunque lo vedesse, sentiva il bisogno di assisterlo e nello stesso tempo si rendeva conto della propria impotenza. Dover ammettere che non si poteva soccorrerlo in nessun modo era assai doloroso, e dava anche un senso di vergogna. Veniva voglia, dalla vergogna, di mettersi a tremare. La malattia di Bossi contagiava gli osservatori, che alla fine se la squagliavano, scappavano via, ma non riuscivano a togliersi dalla mente l’immagine di quel gigante che tremava.»

(J. Roth, “La ribellione”, trad. R. Colorni)

3 commenti:

GRETA ha detto...

non ci crederai ma mi han parlato di Guido Laino qua a Barcelona...non è un tuo "compañero di cultura"?

luca ha detto...

Esattamente.
Chi te ne ha parlato? Bene o male?

GRETA ha detto...

un tal Piero Del Bon, docente di letteratura italiana contemporanea quaggiù..dice che sta lavorando per fargli pubblicare dei racconti