Sono andato a farmi togliere un po’ di sangue, giusto per fare l’appello delle piastrine, ed ora eccomi qui, in laboratorio.
Al lavoro.
Non mi ci riconosco, ora. Tutto così distante, così legato a un anno fa. Mi gonfia gli occhi.
Pagliaccio senza trucco. E senza trucchi.
Spero, prego che tutto questo non mi ricacci indietro, alla maturità di altri saluti e altri mestieri.
Frego le mani dorso contro dorso (doors to doors?).
Schiaccio la faccia sul cuscino surrealistico. Musica di cembali. Forse è vero, che la prescia è stata accelerata da dietro, dal tempo giustiziere; ma anche dagli eventi, non c’è che dire. Non c’è che dire.
Incrocio le gambe (lo ritieni credibile?), ma non le braccia, ah no!, e mi preparo a sdraiarmi sulla calmapiatta (in-a-gadda-da-vida, honey).
Magari senza punture sulla panza, perché bruciano, quelle.
Non riesco a capire se mi stia muovendo in orizzontale o in verticale; e non è tanto questione di essere eretti o pancia-in-giù.
Cerco di sostituire, in pectore, alla felicità (sia persa o ritrovata) la serenità.
Scongiurando il disagio, ed i pensieri vecchi, le nostalgie; la lunghezza di questi minuti che non mi fanno vedere soluzione, l’ansia di oggi e del giorno appresso, i pensieri forse a volte leggermente ingannatori (poveretti), i desideri (insondabili), i ricordi tristi, le soluzioni (di continuità), i sospiri.
Le piccole crisi mi gettano in uno sconforto grande e tondo, che mi rotola sopra, pieno di brutti nani e di cameriere sfatte che ballano il can can.
Sono in disequilibrio su me stesso. Disabitudine alla realtà; come il Geldof-Pink del Muro (sartriano?). Costa tanto costruire un equilibrio.
Non smetto di provarci - ora va un po’ meglio.
Beata scrittura, croce e delizia in una lunga, usata abitudine. Se non chiarisci (perché ti confondi), almeno svuoti il mio stomaco.
ore 10.36 (Molto meglio, ora; alti e bassi, sicuro. Ma molto meglio. Testa, testa, torna qui; e restaci.)
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