venerdì 24 dicembre 2010

Nuova Yorke.

7 dicembre, 10.19

A fare ginnastica sul letto, come in decine di altri posti.

Ma qui siamo a New York.

Dalla finestra del nostro grattacielo, all’incrocio tra Water Street e Wall Street, altri grattacieli riflettono il sole sui nostri vetri.

Qui la sera il mondo si ferma, il quartiere si svuota: la finanza va a dormire. Mentre altrove si tiene viva e continua a scorrere in jazz, birra, biliardo, taxi, negri che cantano e predicano nel metró, portieri d’albergo.

New York: gentile ed estranea; troppo veloce e troppo colorata per entrare in confidenza.

Certamente ci ricorderemo i tavolini anni ’50 di Johnny Rocket (e l’annessa vittoria dei Knicks) ed i tubi a soffitto del Gatto Grasso, dove il biliardino si chiama Thunder (o qualcosa del genere) e gioca con la difesa a cinque. E intanto i clacson della strada, incuranti, non si curano dell’arresto di Assange.






7 dicembre, 23.49

Buen dia. Ovvero: tentativo di Caracas. Dovete aspettare mezz’ora; anzi, entrate subito. Incastratevi in questo tavolino da single. Tu, con gli occhiali: dentro. Lascia che ti blocchi. Tu, con la barba più lunga: Imperiàl o Pacifico?

Perciò Chavez, ed i due sconosciuti attempati baffuti che lo sovrastano, divorano, come ogni sera, fagioli neri, riso, pesce, banana, San Francesco e altre figurine con l’aureola.

New York è pure Caracas, in una traversa della Prima Strada a nord di Houston. Noi siamo la sua merce e il suo bagaglio; la sua paga ed il suo debito; il rapimento ed il riscatto.

Forse per questo, poi, ci accasiamo, anche stasera, al distretto finanziario. Dove ci addormentiamo, al caldo di una stanza diversa, una stanza del ventitreesimo piano - già pronti a prendere il toro per le corna.







9 dicembre, 19.32

Il Madison Square Garden si riempie lentamente. Qualcuno arriva addirittura a metà tempo: come se no andasse a una partita, ma al supermercato. Ci sono hot dog e bibite zuccherine ovunque (persino sul fondo del mio sfortunato zaino). Ci sono cinque casacche chiare, sul legno, di sotto, che fanno a spallate e si portano via un 113-110 da battaglia. (Povero ‘Mago’: 41 punti e retine forate da qualunque posizione non sono bastati.) Uno spettacolo esaltante, completo di City Dancers, let’s go Knicks, de-fense, asciugamani sparati col fucile, basket infantile, polipropilene agitato dietro il canestro e davanti alla lunetta del nemico.

Così come esaltante è Central Park, il bosco dentro il bosco di grattacieli, con gli scoiattoli che si mettono in posa, i ciclisti ed i maratoneti che si allenano, signore a passeggio, specchi d’acqua ghiacciata, il cinguettio nel rumore del traffico; Steven lo strabico che ci consegna due bici sgangherate, da pulire e oliare: bici che saltano i denti ma mordono il parco.

È con una di esse che Matteo travolge il cane inebetito di un settantenne upper-class, che, accecato dall’ira, prende a calci bici e Matteo, inciampandosi nelle ruote, cadendo a terra, roteando il cane e il colbacco e minacciando mosse da boxeur tra la nostra pazienza che va perdendosi: lasciando spazio a lui (“fottuto vecchio pazzo”), al cane (“quel topo”) e a Steven e gli altri ragazzi senza licenza, pacieri improvvisati pena la giornata di lavoro nero.

E tra l’uno e l’altro, tra gli uni e gli altri, quel distributore verde e giallo di benzina dove passiamo sempre in mezzo a cento taxi; il commercio di SoHo, il sole pacifico di Harlem, la tensione malinconica del Bronx. New York, New York, la babele per dotti e bifolchi, da ingoiare a volontà, distaccata e affabile com’è.

New York se ne va per conto suo. E noi al ritmo.






11 dicembre, 2.32

New York è anche un’America di menomati, di ipertiroidei, di disperati che appestano le stazioni, di pazzi che alitano addosso alle ragazzine e bevono da bottiglie avvolte nella carta. Di vecchi che ti aggrediscono al parco e negri spiantati che ci ridono su. Di uomini d’affari in alberghi da due soldi. Di ex bambole impellicciate che tengono comizi alla televisione.

La faccia placida di un paese convinto, un po’ ottuso e senza senso dell’umorismo.

È un bar nascosto dietro la cabina telefonica di un venditore di hot dog, premio agli appassionati di spionaggio.

O un mercato nel quale, tra il ciarpame (solito) di lana e ceramica, trovi una versione di Scott Fitzgerald da portare al dito.

Le decine di suonatori che il venerdì assediano il metró - bambini, asiatici vestiti da robot, vecchi bluesman negri - forse non si sono nemmeno resi conto, come me, del resto, che la redazione del New Yorker è di fianco a quel palazzetto metropolitano che è il Madison Square Garden. Che la redazione del New Yorker è un hotel. Che la redazione del New Yorker è ospitata in un edificio per il quale sono passati Batman, Alec Baldwin, King Kong, i Ghostbusters.

Proibito, e forse per questo affascinante, il senso di appartenenza. L’avranno mai potuto vivere, i nostri Amerigo?







12 dicembre, 15.18

La targhetta nel bagno della nostra stanza recitava “Save our planet”, alludendo al consumo di acqua necessario al lavaggio degli asciugamani usati (e magari riciclabili). Il paese del consumo, del petrolio ad alto uso e alto (per gli altri) costo, della raccolta indifferenziata, delle discariche più grandi del mondo propone una soluzione per “salvare il pianeta”! This is. Nel frattempo, Navy e Army giocano a football tra loro, in un campionato nel quale nessuna delle due squadre sta vincendo (ah, benedetti sintomi); la spunta Navy, nonostante i commoventi spot dei supporter di Army: bimbi che hanno perso il padre, mutilati, rassicuranti attori.

Nel frattempo, un quarantenne pelato e molto brutto, forse italiano, adesca nel metró una ragazzina negra con lo sguardo triste e l’aria assente, di quell’assenza dettata dalla distanza, dal desiderio di sparire. Lui le fa vedere, sullo schermo dell’iPod, che canzone sta ascoltando. Pare noiosa; accenna passi di danza. La bambina ho un sussulto, la bocca si allarga in un sorriso: mostra lui il suo telefono, le sue canzoni. Lui guarda; continua a ballare, con le sue cuffie. Lei torna nella sua apatia. Lui la cinge e la spinge verso la porta del vagone.

“Scappa”, penso. Ma penso pure che andranno a casa insieme. Lo guardo severo. Lui se ne accorge. Scendiamo.


Postilla: aeroporto. Piove nel vento, noi ce ne andiamo. Abbiamo preso quel che ci è stato concesso: in parte già imbarcato nella stiva.

Ora, a casa.

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