21 luglio, 10.57
Tangeri è ruvida.
Ci hanno accolto i suoi poveri invadenti ed i suoi clacson agitati. Da principio, forse a causa della nostra scarsa attitudine o di quella carenza occidentale di preparazione che non concede scampo, abbiamo cominciato a percepire una tensione continua e in crescita. Fino al culmine dell’aggressione di un vecchio dal muso scalcagnato. «Che ore sono?» «Italiani?» «Ho un fratello in Sardegna» «Italiani, spagnoli e portoghesi, brava gente» «Potreste andare lì, ma è caro; meglio qui dietro, vi accompagno». E, alla nostra battuta in ritirata, insulti. «Io sono un uomo, questo è il mio paese, ci dovete rispetto, voi siete ospiti». Il tutto all’indirizzo di Chiara. Il rispetto, già. Il rispetto dei razzisti della situazione.
Poi qualche birra. Ne bevessero qualcuna in più o in meno anche loro, magari sarebbero più tranquilli.
Probabilmente no.
È questa città di confine che travolge e che trabocca, anche da se stessa. Infine la terrazza del Continental, dove puoi lasciarti riposare sotto la brezza e le insegne dell’hotel, e magari fumare con calma, al verde delle tegole e al blu delle vetrate.
E al risveglio ricominciare da capo.
Il Marocco è una monarchia basata sulle mance. Questo penso, mentre un taxi con sette persone a bordo ci porta fuori strada, a chilometri da dove dovremmo andare, e dopo aver sganciato monetine e banconote a destra e a manca.
Restiamo in sospeso, come gente sulla porta, tra l’accoglienza e la rudezza, l’ospitalità e il raggiro.
Appena finisci il the alla menta, le api cercano di mangiarsi il bicchiere e si aggrappano alle foglie. Chissà che non le portino i bambini che provano a vendere fazzoletti Tempo ai tavolini. Api insistenti e gente insistente, affabile e maleducata, disponibile e scontrosa.
Sul chi-va-là, sotto una lieve continua tensione, non riusciamo a capire quando la cortesia è genuina e quando, invece, interessata. Nel dubbio e nell’incertezza, sganciamo; e loro insaccano, come se il debito dell’Occidente nei confronti dei loro connazionali di un passato non meglio precisato si potesse saldare a monetine.
Ci riconciliamo con il paese, insetti a parte, ogni volta che sediamo al tavolino a bere the.
E allora ci soffiamo via la sabbia dalle dita dei piedi e andiamo avanti per la nostra strada, verso sud.
24 luglio, 18.19
Forse abbiamo imparato a trattare con i maroquains che ci importunano per strada, millantando parenti in Italia e promettendo aiuto sicuro: sorridiamo, parliamo molto e confusamente e tiriamo dritto tranquilli, con l’aria di chi sa perfettamente quello che fa.
Anche se, magari, stiamo andando ad ovest mentre dovremmo andare ad est.
Sicuramente, ora come ora, gli scocciatori sono diminuiti. Forse perché siamo più sicuri e consapevoli; forse perché la nostra pelle ora è più scura, e i capelli più crespi. Forse perché è sabato.
Stasera ci infileremo tra le fughe delle piastrelle colorate di un riad nei pressi di Bab Al-Okba e ci lasceremo sfamare, mentre altra gente come noi, al piano di sopra, dormirà, si laverà, leggerà, aspetterà, farà l’amore. I riad sono come uccelliere: lo spazio del cielo è circondato da gabbiette istoriate nelle quali gente come noi fa l’amore, legge, dorme e così via. Fino a quando, nel bel mezzo della notte, il muezzin ti ricorda, col suo canto, dove sei. E tu lo benedici, bevi un goccio d’acqua, ti alzi, fai pipì, ti corichi, abbracci la persona che ami e ti addormenti sereno.
27 luglio, 18.16
Fèz offre un clima più disteso, ed addirittura il desertico vezzo di un temporale che fa saltare la luce.
Sediamo ai tavolini, come prima, con uno spirito decisamente meno guardingo.
Il nostro modo di essere turisti ha ripreso quel ché di coloniale e spensierato che forse ci eravamo immaginati, in parte, prima di lasciare l’Italia.
Quindi ci concediamo pure il lusso di farci intrattenere da un venditore di tappeti che ci suggerisce di lasciare la medina per trasferirci nelle piscine della fresca periferia, o da un passante che nell’ora della siesta ci vende cartoline conto terzi e poi prova a caricare nella nostra valigia anche una lampada, impolveratissima, di piombo e vetro colorato.
La fortuna di questa città, e il suo sorriso, sono i bambini che escono dalle botteghe per inseguire altri bambini, giocare al pallone, dimenticare i freni della bicicletta, parlarti dell’Inter o guidarti verso casa sollevando la tua valigia.
28 luglio, 21.27
Omar grida «barba!». Così ci fermiamo, infine, ancora, e ci giriamo, stanchi per il grande caldo e per l’ennesimo richiamo per la strada. Ci raggiunge uno spilungone barbuto, con la camicia aperta, i calzoncini da spiaggia e le ciabatte di gomma che si trovavano al lido dieci anni fa.
«Cosa ci fate qui?»
«Andiamo in giro. E tu?»
Omar ha lavorato sul lago di Garda; snocciola un po’ di nomi, come le uscite di un’autostrada: Salò, Desenzano, Sirmione, Peschiera. Mi domanda dove ho preso le scarpe con le dita. Riva. Salò? No, Riva. Cominciamo a camminare per il mercato della medina nuova, oltre la mellah. Poi Omar sancisce che è troppo caldo e ci fa fermare all’ombra di alcuni tappeti per raccontarci che ha lavorato con Claudio Fava, il figlio di Nuccio, quello ucciso dalla mafia.
«Anch’io sono in vacanza qui.»
«È normale che ci sia il temporale?»; non mi risponde, forse perché è troppo caldo, ma poi vuole sapere se quest’anno ha fatto molta neve in Italia.
No.
Allora venite al mio bar, ci dice. Compra una bottiglia d’acqua per la strada e ci guida, attraverso la frescura di un mercato appena chiuso, verso il whisky berbero. Non riusciamo a capire, esperti come siamo, se vuole davvero offrirci the alla menta o piuttosto farci annusare il filo di un coltello. Lui in tutta risposta saluta una signora e ci spiega che qui, nelle vie dove è nato, è famoso come la Coca-Cola, per via delle foto di quando lavorava con Fava, ai tempi di Martelli, prima di Tonino Di Pietro.
Quindi si infila nel corridoio buio di una casa e la sensazione della lama sotto il naso si fa più affilata. Niente da fare. Entriamo veramente in un circolo, dove dei ragazzi pelati guardano avvinti una partita del Santos in Arabia Saudita.
Parziale: 1-0.
Omar rinfresca con Chiara la geografia bresciana e ci parla del re e della corruzione marocchina. Il tempo di una telefonata berbera e siamo di nuovo per la strada, per imparare a fare il the alla menta.
Nei vicoli, il nostro ospite ricorda i fasti del Genux e del Number One, mentre salamelecca ragazzotti ingellati e occhialuti commercianti. Fino a quando i negozianti non diventiamo noi, dietro al banco di uno speziale che ci vende, in quella che ormai è la consuetudine del conto terzi, the, menta e argilla berbera per i capelli. Cinquanta dirham per lui, e trenta per Omar: quaranta, così anche l’acqua è bevuta. Lo salutiamo nella consapevolezza cordiale che non lo rivedremo mai più e facciamo sparire la nostra ombra, sotto il sole, tra il giallo polveroso dei cortili reali.
30 luglio, 8.10
L’uomo è arrivato col suo cartello, ha chiesto, se n’è andato.
Noi in attesa, da tre ore, alla stazione, dopo una notte sul pullman a contare le stelle tra Fèz e Marrakech.
L’uomo, quello arrivato e andato, doveva prelevarci e portarci fino al nostro riad. Niente da fare: il ritardo del pullman è stato fatale ai nostri sogni di materasso e alla breve pazienza del nostro anfitrione.
«Italiani: piano piano», dicono qui. Brava gente. Ne hanno presi, di calci nel culo, ma più piano degli italiani vanno i marocchini. Tutti per strada per tutta la notte, ma mai all’appuntamento.
Alle 8.00 del mattino sono aperti solo i caffè e le stazioni. E noi aspettiamo, piano piano.
Antefatto 1. Afro guy vende argento alla libbra su Taara Kebira ed ha imparato a starsene pacifico sull’uscio a suonare e battere la chitarra. Di sera si sposta a monte, al Cafè Clock, per suonare con quel calciatore brasiliano di cui non ricordo il nome e con altri rastamanni maghrebini. E il Cafè si anima di ogni genere di turista, tra cui il prototipo famiglia nordica con bambini biondi perplessi ed il prototipo vegetariana rasta italiana che si mette subito scalza per tastare le mattonelle con le sue sudicie ditina e creare immediatamente un ponte culturale tra lei ed il Nordafrica tutto.
Ore 8.28: Camilla sogna ancora, beata.
Antefatto 2. «Qualche problema?» «Come?» «Mi guardavi; qualche problema?» «No». Sorrido. A parte il fatto che sei un truffatore ed un buono a nulla, penso. Sorrido più largamente. «Sono quello del taxi». Sì, appunto, lo so bene chi sei: lo so, caro il mio coglionazzo. Quello che ha provato a portarci chissà dove con un taxi non suo e al nostro rifiuto ci ha cordialmente maledetti.
Ore 8.31: Camilla si è svegliata.
L’uomo è ad addomesticare cammelli in cortile. Noi aspettiamo.
1 agosto, 18.36
Marrakech, ovvero la città delle moto. Principalmente delle motorette MBK: pilotate, affittate, imprestate, cavalcate, riparate, ingolfate, mal governate da giovinastri, ragazzette, vecchi con occhiali a fondo di bottiglia, donne tuareg con velo integrale.
Il sole del deserto brucia anche in città; ma nel deserto probabilmente non ci sono i giovani villani che dicono dietro a Chiara o i bambini che ti indicano La Plaza.
A proposito di quest’ultima: è quella degli ebrei che vendono lampade industriali, o quella sovrastata dal grande minareto della Koutubia; o ancora l’enorme e instancabile circo di incantatori di serpenti, donne che impongono la pittura dell’henna, venditori di succo sepolti dalle arance, vecchi a sonagli, moto MBK (sic!) e turisti spauriti che è la Djemaa el-Fna.
O magari il patio triste, imbiancato a festa, di qualche squallido riad ben spacciato dagli anglofoni della Lonely Planet, dove tovaglioli impolverati e cuscini lisi saltano più all’occhio di drappi, piatti dorati e scimitarre incrociate.
O l’acqua blu di una piscina che fa da instabile e fluttuante pavimento al patio candido del nostro riad, che di liso e sporco ha nulla e che, anzi, ci affranca, a sera, dalle fatiche di un caldo inedito.
Marrakech è la più europea di tutte le nostre città marocchine. Eppure nasconde nei suoi vicoli la sinagoga inesistente di una mellah litigiosa, o tombe dimenticate di sultani le cui spoglia sono state scordate prima dei loro altisonanti nomi. Marrakech è un meltin’ pot scomposto, nel quale i vizi e le virtù di un popolo disordinato, maschilista e arruffone sono a tratti mitigati, a tratti esaltati dall’incontro con un Occidente sbadato, sorpreso e spossato, finito qui per caso o per confusione. Marrakech è il centro centrifugo di un paese che è contemporaneamente cuoio e plastica, gioiello e bigiotteria, ricamo e stampa industriale; è il motore di due ruote che girano in verso opposto, convulsamente, per andare avanti restando sempre allo stesso posto.
3 commenti:
uno scrittore che non delude mai! mi piacerebbe riuscire a trasformare le cose in parole come fai tu!! (l'immagine della rasta-vegetariana-italiana che costruisce un ponte culturale con l'africa intera mi è piaciuta un sacco!)
E il tema di dover pagare qualsiasi cosa passandosela a sganciare monetine mi ha ricordato un sacco la Bolivia (meta ultraconsigliata!)
ciaoo
:)
proprio un bel racconto e delle foto superlative...mentre leggevo mi sembrava di essere lì anch'io a vivere quelle emozioni!Bravo!
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