martedì 12 febbraio 2008

Prove tecniche di avvistamento - 2


«Era nato con gli occhi aperti, attento a ogni cosa, e con un vocabolario di cento parole. Capiva muri, scarpe e pane nero, ma non conosceva il termine per indicare il legno. Pinocchio credeva di essere un ragazzino come tutti gli altri. Arrivò un mattino nella panetteria di Geppetto, saltando fuori scalzo da un cestino del pane. “Babbo,” gridò “sono qui.”
Il vecchio fornaio, che dopo un secolo di farina aveva lo scalpo bianco come il gesso, trasalì nel sentirsi chiamare babbo in mezzo a tutta quella polvere. Non si era mai sposato. Geppetto era un socialista. Le sue teorie gli vietavano di prender moglie. Per lui le donne erano tutte sorelle. E compagne. Non avrebbe mai incatenato all’anello nuziale una sorella e compagna. Che fossero le Camicie Nere a beffarsi di lui, chiamandolo babbo in quel polverone?
Ma poi vide il ragazzino di legno. E si mise a tremare. Non gli veniva in mente un solo capitolo di Bakunin o Proudhon che parlasse di bambini di legno.
“Chi sei?”
“Pinocchio, tuo figlio.”
Geppetto cominciò a chiedersi se gli stavano scaricando sulla testa qualche antico peccato. A dispetto di tutte le sue teorie sulle donne compagne, due volte al mese, in concomitanza con i suoi attacchi di vigore, andava a trovare Brunilde, la prostituta del paese. Ma Brunilde non poteva aver messo al mondo un ragazzino di legno senza che lui se ne accorgesse.
“Chi ti ha mandato?”
“Nessuno, babbo.”
Al diavolo tutto, l’idea di avere un figlio, anche se di origini così dubbie, gli piaceva.
La voce si diffuse. I compaesani di Geppetto non furono altrettanto felici all’idea di un ragazzino magico a Montegrumo, e pensarono che Pinocchio fosse un altro trucco dei socialisti. Geppetto era stato un rompiscatole già prima che Mussolini marciasse su Roma. Per calmare la sua lingua socialista, alla Casa del Fascio la milizia locale gli aveva fatto bere olio di ricino e una vasca da bagno di caffè. Il fornaio si risvegliava, ogni cinque anni, e le Camicie Nere dovevano ripetere il trattamento.
Anche questa volta i montegrumesi optarono per l’olio di ricino. Pinocchio era una creatura del diavolo, fabbricata nel forno di Geppetto in base a chissà quale ricetta socialista. Il fornaio giurò ai fascisti di averlo trovato nella panetteria e di avere deciso di allevarlo come un figlio vero.
“Bastardo,” dissero i fascisti, “ce l’hai un permesso per tirar su un figlio?”
Il fornaio baciò i loro stivali, biascicando preghiere a Gesù, Giuseppe e Maria.
I fascisti risero. “Il bastardo è diventato religioso.” Ma gli permisero di tenere la sua creatura del diavolo.
Non appena le Camicie Nere se ne furono andate, Geppetto si ripulì le ginocchia e e iniziò a educare quel figlio. Pinocchio non aveva mai frequentato la scuola. Non aveva nemmeno un passato. I suoi ricordi cominciavano nella panetteria.
Geppetto tirò fuori i libri scolastici che nascondeva nel doppio fondo della madia della farina e si mise a leggere, ma nel bel mezzo di Proudhon il ragazzo si addormentò. Geppetto fu colto da disperazione.
Ma Pinocchio era determinato a diventare un socialista come il padre. “Giuro sulle sante manine di Gesù che imparerò, babbo. Davvero.”
“Testa di legno,” borbottava Geppetto. “Siamo socialisti. Noi non crediamo in Dio.”
Allora Pinocchio andò a rifornirsi di libri nella biblioteca del paese, per dimostrare al padre quante cose poteva imparare da solo un bambino di legno. Non fece attenzione ai titoli. Scelse i libri più grandi, convinto di poterne ricavare maggiore sostanza.
Cominciò a saltare da un libro all’altro. La sua testa di legno non riusciva a trattenere i paragrafi. La sua mente ributtava fuori tutte le parole scritte. Aprì anche l’ultimo libro e lesse con furia travolgente, deciso a concentrarsi a ogni costo sul paragrafo.
C’era una volta un cavolfiore che avanzava per la strada, e questo cavolfiore si chiamava Marco Polo...
Pinocchio si era imbattuto nella prima gioia della sua vita di bambino di legno. Tornò indietro per controllare la pagina del titolo. Piccolino, di Giacomo Joyce. Era come se Giacomo Joyce avesse inventato un passato e una storia per Pinocchio. L’eroe del libro è un ragazzino miope che soffre perché nel suo collegio alla periferia di Firenze lo trattano come una nullità. Preti e suore gli calpestano gli occhiali. Gli altri collegiali lo sbattono nel fango. I genitori non vengono a prenderlo neanche a Natale e a Pasqua.
Piccolino potrebbe benissimo essere nato in un cestino del pane, figlio di un fornaio socialista. Invece diventa un saccentello fissato con Dante Alighieri e con gente chiamata guelfi e ghibellini. Piccolino dichiara che la vita è una continua battaglia tra guelfi e ghibellini, tra le forze della chiarezza e le forze del fango. Pinocchio pianse quando, nell’ultima pagina, Piccolino parte per la Cina per andare “a rovesciare i ghibellini ovunque si nascondono e a scoprire l’intrepida bellezza dei guelfi”.
Quella era la missione di Pinocchio. Combattere i ghibellini fascisti e portare un tocco guelfo a Montegrumo. Si preparò un discorso dai ritmi suadenti, alla Giacomo Joyce, discorso che intendeva tenere alla Casa del Fascio. Salì i gradini della Casa indossando il cravattino a farfalla, preso in prestito dal padre, e fece un inchino alle Camicie Nere, che stavano per macellare un maialetto da arrostire sul fuoco.
Il maialetto grugniva disperato, correndo tra le loro gambe. I suoi gemiti affannosi, simili a quelli di un cavolfiore che impara a respirare, ricordarono a Pinocchio, la storia di Piccolino, e così decise di salvare il maialetto.
“Signori,” gridò, “c’era una volta, una volta brutta davvero, un maiale, e quel maiale era qualcosa di più di una semplice proprietà. Aveva un cuore non meno umano del vostro. Posate i coltelli, o montegrumesi, e trattate con rispetto il vostro fratello maiale.”
Le Camicie Nere dimenticarono la cena e si lanciarono su Pinocchio, ansiosi di affettargli le parti intime. Così non avrebbero avuto più un ragazzino di legno a indottrinarli sulle virtù del maiale che intendevano mangiarsi.
Gli tagliarono i pantaloni, glieli abbassarono e scoprirono che il ragazzo non aveva i genitali. Liscio come un’asse. “Guido, avrà prestato l’uccello al re?” Ma, passato lo stupore iniziale, persero ogni interesse per lui. Era un essere da evitare, come una donna di città che si rasava le gambe.
Presero maiale e bambino e li lanciarono fuori dalla Casa del Fascio. Piuttosto che trattare con gente come Pinocchio, preferivano tirare avanti a maccheroni e formaggio. I maiali dal cuore umano erano impossibili da masticare.»
(J. Charyn, “Il naso di Pinocchio”)

«Che io sia impiccato se ci capisco qualcosa!»
(G. Bonelli, Kit Carson in “Tex Willer - A sud di Nogales”)

1 commento:

Unknown ha detto...

questo spezzone è geniale!
devo assolutamente leggere tutto il libro!