martedì 26 febbraio 2008

Tutto fa brodo.

«A primavera inoltrata Herzog si era sentito sopraffatto dal bisogno di spiegare, di mettere in chiaro, di giustificare, di collocare in prospettiva, di fare ammenda.
A quell’epoca insegnava agli adulti di una scuola serale a New York. Per tutto aprile era stato ancora abbastanza lucido, ma a fine maggio aveva cominciato a vaneggiare. Gli studenti capirono presto che non avrebbero mai imparato molto da lui sulle “Origini del romanticismo”, ma che c’erano invece da vedere e sentire cose strane. I formalismi accademici caddero uno dopo l’altro. Il professor Herzog aveva la inconsapevole franchezza di un uomo profondamente preoccupato. E verso la fine del corso, nelle sue lezioni si produssero lunghe pause. Si fermava, borbottando “scusatemi”, cercando la penna nella tasca interna della giacca. Sul tavolo che cigolava, scribacchiava dei foglietti con mano sospinta da un’urgenza imperiosa; era distratto, aveva gli occhi cerchiati. Il pallore del suo viso diceva tutto — tutto. Ragionava, discuteva, soffriva, gli era venuta in mente un’idea nuova, brillante — l’orizzonte gli si apriva, si richiudeva; i suoi occhi, la sua bocca, dicevano davvero tutto, senza bisogno di parole: aspirazioni, desideri, pregiudizi, amare collere. Vi si poteva leggere proprio tutto. La classe aspettava quattro o cinque minuti nel silenzio più profondo.
Dapprincipio, gli appunti che prendeva non seguivano nessun ordine. Erano frammenti — mezze parole senza senso, esclamazioni, proverbi e citazioni aggrovigliate o, nello yiddish di sua madre morta da tanto tempo, Trepverter — tardive repliche di uno che già sta ruzzolando per le scale.
Scriveva, per esempio: Morte — morire — rivivere — tornare a morire — vivere.
Senza persona, niente morte.

E: Sulle ginocchia della tua anima? Tanto vale rendersi utili. Frega il pavimento.
E ancora: Rispondi allo stolto come si conviene alla sua follia, ché talora non gli paia di essere savio.
Non rispondere allo stolto secondo la sua follia, ché talora anche tu non gli sia uguale.
Sceglierne uno.

Annotò anche: Leggo, in Walter Winchell, che J.S. Bach si metteva i guanti neri per comporre una messa da requiem.
Herzog non sapeva bene che cosa pensare di quegli scarabocchi. Si abbandonava all’eccitazione che li dettava, e sospettava, talora, che fossero un sintomo di disgregazione. Non che la cosa lo spaventasse. Sdraiato sul sofà del monolocale più servizi che aveva preso in affitto nella 17esima Strada, qualche volta si immaginava di essere un’industria per la produzione di racconti autobiografici, e si ripassava in rassegna completamente, dalla nascita alla morte. Su un foglietto arrivò ad ammettere:
Non trovo giustificazione.
Riconsiderando la propria intera esistenza, s’accorse di aver sbagliato tutto — tutto. La sua era una vita — come si suol dire, rovinata. Ma siccome neppure agli inizi era stata un gran che, perché prendersela? Riandando, su quel sofà puzzolente, ai secoli del passato, all’ottocento, al cinquecento, al settecento, si sovvenne di un detto settecentesco che gli piaceva:
Il dolore, o Signore, è una sorta di ozio.
Continuò a tirare le somme, bocconi sul sofà. Era un furbo o un idiota? Be’, in quel momento non poteva certo sostenere di essere furbo. Un tempo, forse, aveva avuto la stoffa di un furbacchione: invece aveva deciso di fare il sognatore e i più svelti di lui se l’erano mangiato vivo. E poi, cosa? Gli cadevano i capelli. Leggeva la pubblicità della ditta Thomas, specialista del cuoio capelluto, con l’esagerato scetticismo di chi ha una profonda, disperata voglia di crederci. Specialisti del cuoio capelluto! Eh già... era un ex bell’uomo. La sua faccia denunciava le batoste ricevute. Ma quelle batoste se le era volute lui, anzi aveva persino dato una mano ai suoi aggressori. Da quelle riflessioni fu portato a fare un’analisi del proprio carattere. Che tipo era? Be’, per dirla con una definizione moderna, era un narcisista; un masochista; e anacronistico. Il suo era il quadro clinico del depressivo — non grave: non maniaco depressivo. Ce n’erano di conciati peggio, in giro. A dover dar retta a quelli che credono, e al giorno d’oggi pare convinzione generale, che l’uomo è l’animale ammalato, allora lui cos’era? vistosissimamente malato, smisuratamente cieco, straordinariamente degenerato? No. Era intelligente? Il suo intelletto avrebbe certo reso di più, se egli avesse potuto avere un carattere paranoide aggressivo, avido di potere. Era invidioso, ma non eccezionalmente competitivo, non era un vero paranoide. E la sua cultura? A questo punto era costretto a ammettere di non essere una gran cima, nemmeno come professore. Oh, certo era onesto e volenteroso, era dotato di generosità sincera, anche se un po’ immatura, ma sistematico probabilmente non sarebbe riuscito a diventarlo mai. L’esordio era stato brillante, con una bella tesi su “Lo stato di natura nella filosofia politica inglese e francese del seicento e settecento”. Vantava al suo attivo numerosi articoli, un libro, Romanticismo e cristianesimo, ma gli altri progetti ambiziosi si erano, uno alla volta, rinsecchiti tutti. In virtù di quei primi successi non aveva mai incontrato difficoltà per avere una cattedra o per vincere una borsa di studio. La Naragansett Corporation gli aveva versato, durante un certo numero di anni, quindicimila dollari perché continuasse i suoi studi sul romanticismo. I risultati stavano dentro un armadio, chiusi in una vecchia valigia: ottocento pagine di discorsi caotici che non avevano mai trovato il modo di venire a fuoco. Se ci pensava, gli veniva la rabbia.
Accanto a lui, sul pavimento, giacevano dei pezzi di carta, e di tanto in tanto si inchinava a scribacchiare qualcosa.
Ora annotò: Non una lunga malattia è stata la mia vita; la mia vita è stata piuttosto una lunga convalescenza: Ripensamento dei principi liberal-borghesi, illusione di migliorare, veleno della speranza.
Si ricordò per un attimo di Mitridate, il cui organismo aveva imparato a prosperare col veleno. Trasse in inganno i propri assassini, che fecero l’errore di propinargliene a piccole dosi, e così, invece di distruggerlo, lo insaporirono.
Tutto fa brodo.»

(S. Bellow, “Herzog”, trad. L. Ciotti Miller)

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