Un successo? È stato quello che si può definire un successo. Sperato? Abbastanza. Acciuffato.
Il capo ha fatto in tempo a reclamarne la paternità morale (quella fisica sta ancora a Francoforte): non ammetterà a sé, né ad alcun altro. Tuttavia ho fatto un bel lavoro, accidenti.
Da esserne felici.
E infatti ne sono felice.
Detto questo: pranzo lussuoso a base di tonkatsu e riso amidosissimo (in sottofondo, su maxischermo, “Io ballo da sola”, italiano, sottotitoli in inglese). Cena eclatante, a base prevalentemente di sashimi, ma anche di yakitori. Stasera ho avuto modo pure di assaggiare del sake: non quello pestilenzialmente alcolico dei locali italiani (roba cheaper, dice Osawa san), ma quello da signori di campagna. Al primo bicchiere, colmo fino all’orlo, i miei ospiti erano divertiti. Al secondo stupiti fino ad applaudirmi (soprattutto Taguchi san, la mia nemesi lavorativa). Al terzo ammirati.
Ci hanno seguiti in macchina, fino alla stazione, per salutarci. Inchini e tante, tantissime foto; poi ancora le mani agitate mentre già eravamo oltre il vetro, quasi sui binari.
Giapponesi, brava gente.
Comincio ad ambientarmi. Mi trovo a mio agio tra modi troppo cortesi, imbarazzi mascherati e curiosità manifesta: affronto la cosa con disinvoltura. Non dico che ci comportiamo tutti nello stesso modo; anzi. «Siamo cattivi e buoni, siamo vigliacchi e fieri, saggi, falsi, sinceri: coglioni». Ma in fondo, proprio in fondo, a volerci veder bene, siamo tutti uguali — ontologicamente — nelle pretese e nella disponibilità. Pure chi insiste nello scoreggiare a culo nudo: due, cinque, dieci volte. Anche se, e questo è pure vero, non sa cosa si perde.
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