martedì 10 luglio 2012

Lettere da Sapporo #3

Il martedì ha altri colori. Mi sveglio pimpante — per quanto possibile — alle 6.30, faccio ginnastica, infilo la camicia e scendo per la colazione. Ricco buffet; mi permetto addirittura l’eccesso di un salmone marinato, che infatti avanzo colpevolmente.
I tassisti di Sapporo hanno guanti bianchi. Ho appreso solo ieri che in Giappone il volante è sulla destra; l’autista pare non accorgersene e m porta misterioso e incomprensibile al mio appuntamento. Davanti al Daimaru Market mi aspetta Osawa san. Il tempo di un paio di foto. «Luca san?», chiede all’unico occidentale nei paraggi. Eccomi qui; raccattiamo Kawahara san e prendiamo il treno per la nostra comune destinazione, dove ci preleva una macchina, come in un film.
E poi al lavoro, sodo: una riunione nella quale l’unico interprete, tra inglese e giapponese, è Osawa san; le ore in produzione, a sporcarsi le mani e la testa. Durante una pausa mi spiegano che poco distante c’è un parco nel quale sono esposte (o più che altro tumulate) alcune sculture di marmo italiano. Mi ci portano: è vero.
Andiamo a pranzo, in una specie di bar colorato e riempito del fumo di signori di mezza età. Spaghetti (noodles) e ritorno al lavoro.
Sodo, ancora. Ma emozionante. Così come le pause: a metà pomeriggio un paffuto operaio mi mostra la sua mini-moto. Sembra una di quelle con le quali gareggiava Rossi da ragazzino; ed è forse il futuro di Biaggi. Gli spiego che ho una moto Guzzi, una V7 Classic, gliela mostro in foto. Pare soddisfatto. Mi fa dire da Osawa che anche un suo amico ha una Guzzi e che gli piace il rumore che fa. Più della Ducati. Non lo dire a me, amico. Mi propone di provare la sua; faccio un giro in cortile — poi è la volta di Osawa san, che non posso non immortalare.
Sulla via del ritorno, dopo più di dieci ore a’llavorare, incontriamo in stazione delle collegiali in stile manga. Camicia bianca, gilet di lana blu, gonna a losanghe verdone, calze blu al ginocchio (con piccoli fregi: un gattino, o cose simili), scarpette laccate, zaino indossato lungo e borsetta. Mi guardano come se fossi appena sceso dal tappeto rosso di un’astronave marziana.
Ridacchiano.

Sorrido.

Prendiamo il treno e torniamo a Sapporo, giusto in tempo per partecipare colpevolmente ad una cena straordinariamente ricca — e clamorosamente offertami —. Il pezzo forte è il granchio: grosso così, bello così, buono. Così. «Sembra che non sappia perché è qui», dico a Osawa san mentre lo guardiamo sguazzare lento fra i suoi simili. «Ma noi lo sappiamo bene». Granchio, certo, e sashimi vario, tempura, udon, cervello di calamaro, alghe. A ciascun piatto la sua salsetta.
Chiamo Chiara e la bombardo di informazioni. Ieri sera quasi piangevo, oggi rido. Non vedo comunque l’ora di tornare a casa. Provo poi a passeggiare verso l’hotel, ma il navigatore si perde, ed io con lui. Taxi! A tutta birra tra le luci luccicanti.

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