«...Perché al giorno francamente non ci tenevo, e quanto a mia madre potevo sperare che lei mi aspettasse ancora, dopo tanto tempo? E la gamba, le gambe. Ma le idee di suicidio facevano poca presa su di me, non so più perché, credevo di saperlo, ma mi accorgo che non è così. L’idea dello strangolamento, in particolare, pur così allettante, l’ho sempre superata, dopo una breve lotta. Vi dirò una cosa, non ho mai avuto niente alle vie respiratorie, a parte naturalmente le miserie inerenti a questo sistema. Sì, le volte in cui l’aria, che contiene dell’ossigeno, pare, non voleva più scendere dentro di me, né, una volta discesa, lasciarsi espellere, potrei contarle, avrei potuto contarle. Ah sì, la mia asma, quante volte sono stato tentato di mettervi fine tagliandomi la carotide o la trachea. Ma ho tenuto duro. Il rumore mi tradiva, diventavo viola. Mi prendeva soprattutto di notte, cosa di cui non sapevo se dovevo essere contento o scontento. Perché di notte, se è vero che i bruschi cambiamenti di colore hanno minor rilevanza, per contro il minimo rumore insolito si fa notare di più, per via del silenzio della notte. Ma queste erano soltanto delle crisi, e son poca cosa, le crisi, in confronto a tutto ciò che non si ferma mai, che non conosce flusso né riflusso, dalla superficie plumbea, dalle profondità infernali. Non una parola, neanche una parola contro le crisi che m’afferravano, mi torcevano e infine graziosamente mi mollavano, senza denunciarmi a terze persone. E m’avvolgevo il cappotto intorno alla testa, il che soffocava il rumore osceno del soffocamento, oppure camuffavo quest’ultimo in accesso di tosse, universalmente ammesso e approvato, e il cui unico inconveniente è che rischia di suscitare la compassione. E forse è giunto il momento di far notare, meglio tardi che mai, che, dicendo che il mio procedere era più lento, in seguito al cedimento della gamba buona, non esprimo che una minima parte della verità. Perché in verità avevo altri punti deboli, qua e là, che divenivano anch’essi sempre più deboli, com’era prevedibile. Ma a non essere prevedibile era la rapidità con cui la loro debolezza aumentava dopo la mia partenza dalla riva del mare. Perché finché ero rimasto in riva al mare i miei punti deboli, pur aumentando in debolezza, come c’era da aspettarsi, aumentavano solo insensibilmente. Per cui avrei avuto notevoli difficoltà ad affermare, per esempio tastandomi il buco del culo, Toh, va molto peggio di ieri, non si direbbe più lo stesso buco. Mi scuso di tornare ancora su questo vergognoso orifizio, è la mia musa che l’esige. Forse bisogna vedervi non tanto la pecca che viene nominata quanto il simbolo di quelle che taccio, dignità dovuta forse alla sua centralità e alle sue arie di intermediario tra me e l’altra merda. Lo si misconosce, secondo me, questo piccolo buco, lo si chiama buco del culo e si ostenta disprezzo. Ma non sarà piuttosto la vera porta principale dell’essere, del quale la celebre bocca sarebbe solo l’entrata di servizio? Nulla vi penetra, o così poco, che non ne sia respinto sull’istante, o quasi. Quasi tutto quello che gli giunge da fuori gli ripugna, e per quello che gli giunge da dentro non si può dire che si dia molto più da fare. Non sono cose significative? Il tempo giudicherà. Ma cercherò ciononostante di concedergli un po’ meno spazio in futuro. E mi sarà facile, perché il futuro, non parliamone, non ha proprio nulla d’incerto. E se si tratta di lasciar da parte l’essenziale, credo di sapere il fatto mio, e tanto più in quanto sul fenomenico possiedo solo informazioni contraddittorie...»
(S. Beckett, “Molloy”, 1951)
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