«“Quando si alzò dal letto, la luce dell’alba era già sparita da un pezzo, per lasciare il posto ad un sole sicuro e abbacinante.
Il tipico vocio estivo, nel quale le grida delle mamme si confondono e mescolano con quelle dei bambini, filtrava assieme ai raggi dalle imposte bruciacchiate.
«Che scherzo del destino: sembra ‘Divorzio all’italiana’», pensava. «Altro che divorzio; mi mangerebbero vivo.» Non si può mica più ricorrere al delitto d’onore. E poi, che cosa cruenta!
E, del resto, c’è una qual certa violenza anche ad infilarsi sotto le lenzuola. Un forma di brutalità, nel sussurrarsi dolcezze nelle orecchie.
Ti amerò per sempre.
Non ci lasceremo mai.
Baciami qui.
Non fare lo scemo.
Due belle cosce sono un sopruso di sincerità.
«Quanti anni avrà, ora, lei, più o meno?». Ventitre, compleanno più, compleanno meno. I capelli lunghi e mossi e un seno formato e sodo, eccitante sotto la canottiera stretta. «Ma che c’entra con l’età? E certo, lo concedo: sarebbe molto più molle, se avesse sessant’anni. Invece è burrosa e piena», mormorava fra sé e sé, sbirciando nello specchio il rasoio che gli schiariva il volto disteso.
Il modo migliore per mantenere un aspetto rilassato è stare rilassati: non cedere al pensiero di come si dovrebbe stare in Società. Qualche piccola bugia a se stessi rende addirittura simpatici.
La cravatta stringeva prima ancora d’annodarla. «Una volta, almeno, c’era il rumore del ventilatore», pensò. La verità? La verità è che l’aria condizionata è molto più flaccida. Nella medesima stanza, dietro la stessa finestra che si apre sulla piazza sempre identica.
«Da alcuni mesi, ormai, non riesce più a porre le basi per relazioni stabili. Qualunque contatto, nemmeno troppo alla lunga, lo costringe e, quindi, respinge. Ciononostante, egli continua a coinvolgere amanti e a trascinarle a fondo nel suo confuso divenire».
«Anche questa, dopotutto, è una forma di menzogna».
«Una forma di menzogna talmente sincera e palese da far arrossire. Una menzogna onesta, ecco; una menzogna garbata».
Le 10 e quaranta. Giusto il tempo di un caffè, prima della messa. Regola numero 1: mai, mai perdere la santa funzione. Potrebbe essere l’inizio e la fine di ogni forma di melodramma.”
Questo è l’inizio della storia che avrei raccontato se non avessi poi virato, per restare ligio al dovere, su una forma giornalistica più consona e appropriata.
È l’inizio di una storia che ricalca quella del Barone Cefalù di Pietro Germi. Fefè (il Barone, appunto), un meraviglioso Marcello Mastroianni, per avere carta bianca con la sua giovane cugina e amante induce la moglie all’adulterio in modo da poterla giustamente ammazzare. Delitto d’onore, ovviamente; meglio del divorzio. Fefè esce di prigione molto velocemente, grazie a un’amnistia, e sposa la cugina. Che però durante il viaggio di nozze, alla fine del film, lascia intendere che forse non sarà troppo fedele.
Penso a Fefè Cefalù ogni volta che inciampo in Pierferdinando Casini. È più forte di me.
Devo ammetterlo: è vero che, di questi tempi, affrontando l’argomento “immoralità sensuali”, suona strano non andare con la mente a Berlusconi. Ma Silvio Berlusconi, in fin dei conti, nella recente (eclatante) vicenda delle escort a Palazzo Grazioli, ha solo dimostrato di essere un misero puttaniere; di più: un priapeo patologico. Può bastare, questo, a renderlo “interessante”? In certo modo – va ammesso – sì. D’altra parte, però, il suo morboso e perverso desiderio sessuale non è l’unico vizio che lo affligge. Se è per questo, infatti, è certamente anche strafatto. E poi ha numerosi vezzi ‘meta-immorali’: la megalomania, l’arroganza, la morbosa pesantezza del suo sense of humor. E allora, in una visione di questo tipo, e cioè più ampia e articolata, si può prescindere da lui, e concentrarsi su un suo simile: Casini, appunto. Non tanto per il suo sguardo vacuo e vagamente inebetito (lo sguardo che l’ottuso assume quando non comprende ma è determinato a fare); quanto piuttosto per ciò che il bolognese Pierferdinando, simbolicamente, rappresenta nell’allegoria cattolica.
Casini è immorale quanto Berlusconi; ma meno smaccato. Meno verace. E molto più propenso a sposare le posizioni del Potere vaticano e ad intrattenere con esso relazioni quantomeno cortesi; senza mai farsi sfuggire l’occasione di esaltare un certo tipo di moralismo di sapore vagamente reazionario.
Ma il Casini ha una storia interessante; anzi, più storie. Quella politica è legata ai nomi di Antonio Bisaglia e Arnaldo Forlani. Il primo è morto annegato in circostanze non esattamente limpide nel 1984, anticipando di qualche anno le morti, sempre per annegamento, del fratello Mario (1992) e del segretario particolare Mazzolaio (1993). Il secondo è un personaggio condensabile qui nell’eloquente “Non ricordo” che rivolse, nel 1992, ai giudici che lo interrogavano sulle tangenti ricevute dalla DC nell’ambito della vendita di Montedison a Eni.
Anche la storia personale di Pierferdinando, comunque, ha qualcosa da dire. Tanto per cominciare, Casini è sposato in seconde nozze con Azzurra Caltagirone; dalla quale ha avuto una figlia e con la quale ha concepito un secondo figlio prima di contrarre il matrimonio. Matrimonio, peraltro, saggiamente celebrato in comune. Azzurra, del resto, ha un cognome che non mente: è infatti la figlia di Francesco Gaetano Caltagirone, uomo di grande ricchezza e infinita intraprendenza. Nato immobiliarista, papà Caltagirone ha successivamente ampliato il suo raggio d’interesse al settore dei media, acquisendo nell’ordine il controllo de “il Messaggero” di Roma, “il Mattino” di Napoli, il (tri)veneto “Gazzettino”, il “Corriere adriatico” di Ancona, il “Nuovo quotidiano di Puglia” ed un paio di distribuzioni gratuite, tra le quali “Leggo”. A questo va aggiunta la sua partecipazione, con un non insignificante pacchetto azionario, nel “Monte dei Paschi di Siena”. Non proprio il Don Ciccio Matara di Germi, insomma; ma neppure San Francesco. Nel settore del formidabile suocero ha operato però anche Pierferdinando, mandando in porto un ottimo affare: l’acquisto (alle Assicurazioni Generali) del palazzo nel quale abitava per un prezzo di circa due volte inferiore a quello di mercato. Non male, per un dilettante.
A questo punto va detto che, se l’atteggiamento matrimoniale libertino del Nostro può essere elemento di critica da parte del Potere vaticano, il suo pollice verde per gli affari non dovrebbe rappresentare un problema.
L’Istituto Opere Religiose (IOR), infatti, non è esattamente un’associazione filantropica.
In una interessante ricostruzione firmata qualche tempo fa da Curzio Maltese, una impressionante sequenza di eventi è posta in successione ed in correlazione.
Dapprima il crac del Banco Ambrosiano, liquidato con un quarto del denaro dovuto e qualche cadavere qua e là. Poi i conti segreti aperti dai politici. Quindi i rapporti con Enimont, e quelli con la mafia (che, pare, versava parecchi soldi nelle case della IOR). Infine, i soldi in nero versati dai cosiddetti “furbetti del quartierino”.
Quella organizzata dal Potere vaticano, peraltro, è probabilmente l’unica Chiesa al mondo a disporre di una propria banca d’affari.
Amore, soldi e case, insomma. In fondo, gli ingredienti per una vita perfetta.
Proprio il concetto di perfezione stride, per contingenza o per necessità, con la vita quotidiana. E l’Italia, di fatto, si riduce ad essere un paese drogato dalla repressione. Nel quale la politica è chiassosa, prepotente e violenta. Nel quale la solidarietà è dominata dalla paura. Nel quale la Società non riesce ad emanciparsi da regole inique e paure irrazionali. Nel quale, in naturale contraddizione, le abitudini sessuali sono sempre più orientate verso una forma di stranita perversione maniacale: usuale e stupefacente al tempo stesso. Berlusconi, a pensarci, sembra quasi un agnello sacrificale.
Ho un piccolo aneddoto finale; potrebbe apparire fuori tema, ma trovo che sia invece significativo. Un amico straniero mi ha recentemente reso partecipe di un paio di sue perplessità. La prima riguardava la facilità con la quale le ragazze italiane si dedicano al sesso orale sin dal primo appuntamento (sic!); la seconda era legata alla pratica orale stessa: effettuata senza preservativo. «Probabilmente non apprezzano il sapore del lattice», ho pensato. Il quale, in fondo, dovrebbe essere lo stesso che ha il succhiotto da poppante; ma, d’altra parte, che hanno pure i guanti da cucina. Abbiamo quindi parlato di preservativi. Nel suo paese, dice, sono gratis. (Nessun modello de luxe, per carità; la base: quella per evitare malattie ed altri effetti indesiderati, per intenderci.) In Italia costano molto.
«Qui i preservativi costano tanto perché in Italia c’è il Vaticano», gli ho detto. Non mi pareva del tutto convinto. «Forse è cattolico», ho pensato fra me e me. «Impossibile», subito dopo.
Più probabilmente, è vittima, anche lui, del meccanismo viziato che porta la maggior parte delle persone che vivono qui a scontare una fiscale e invincibile soggezione. Sia nei confronti del Potere vaticano e della sua dottrina sociale, che dei suoi interessati emissari.
Ma questo modo di vivere non è dignitoso. E allora, forse, la vera libertà non può che passare attraverso l’abbandono di certa retorica ipocrita e l’inseguimento (appassionato) di una cultura più autonoma e aperta.»
[Le premesse (prima e seconda, non filosofica) sono lì a far passare il tempo. Il resto si espone compostamente.]
venerdì 30 ottobre 2009
giovedì 29 ottobre 2009
mercoledì 28 ottobre 2009
Il giudizio divino
"Avevano deciso di abortire. Ma una volta all’ospedale, per gli accertamenti preliminari all’interruzione di gravidanza, il primario, obiettore di coscienza, le ha umiliate nel corridoio del reparto, davanti al personale e alle degenti. «Assassina, sta uccidendo suo figlio», ha urlato Leandro Aletti, responsabile di Ostetricia e ginecologia dell’ospedale di Melzo e noto antiabortista, simpatizzante di Comunione e liberazione, a ciascuna delle tre donne, dai 27 ai 36 anni, che avevano scelto quella struttura pubblica per abortire.
L’aggressione verbale è riportata nella denuncia per ingiuria presentata al giudice di pace di Cassano d’Adda: «Il primario, noto antiabortista, ci ha insultate e diffamate — denunciano le donne — offendendo il nostro decoro e arrecandoci un danno morale». Dopo due rinvii, a dicembre si terrà l’udienza sul caso. Anche se entrambe le parti stanno cercando un accordo per evitare di arrivare al processo. Con il primario che, sebbene il suo avvocato Mario Brusa parli di un «fraintendimento tra le parti», sarebbe pronto a firmare una lettera di scuse e chiarimenti per archiviare l’accaduto. La direzione sanitaria ha già presentato le sue scuse.
Sotto accusa è anche la procedura che prevede di compilare la cartella clinica, preliminare all’aborto, in un atrio lungo la corsia del reparto. Pratica a cui nella struttura, si dice, si ricorre quando la sala visite è occupata, ma che in sostanza comporta la violazione della privacy delle donne. «Mentre iniziavamo il colloquio con il medico di turno venivamo accostate dal primario che ci aggrediva con insulti ad alta voce — si legge nel ricorso — così tutti i presenti venivano edotti della ragioni della nostra presenza nel reparto rendendo di pubblico dominio una scelta delicata e assolutamente personale».
Un episodio «lesivo della nostra dignità», tanto che una delle tre donne sarebbe stata anche identificata da una conoscente che passava di lì. «Le muove l’umiliazione subita in un momento delicato che nessuna donna affronta a cuor leggero», commenta l’a vvocato delle denuncianti, Ilaria Scaccabarozzi. La direzione dell’o spedale di Melzo precisa che in tema di accoglienza a chi vuole abortire «la paziente viene sottoposta alla raccolta dei dati sanitari e di degenza all’interno degli spazi deputati come previsto dal regolamento sulla privacy»."
(Ilaria Carra, "la Repubblica" on-line, 27 ottobre 2009)
«Assassina, sta uccidendo suo figlio», urla il ginecologo. Sul corridoio del reparto che dirige, in mezzo a pazienti, infermieri, strutturati.
«Non abortite: dateci in pasto i vostri figli. Dateli in pasto a questa Società: fateli diventare poveri; poveri di spirito, poveri di strumenti: poveri diavoli. Fateli soffrire. Abbandonateli alla loro vita: faticosa, incomprensibile, insopportabile. Fate perdere loro la dignità. Allora, allora sì che saranno vivi! Donne: voi siete un mezzo, non un fine; siete una necessità biologica. Scabrosa, come ogni necessità. Peccaminosa, fuori dallo scopo. Un mezzo deve agire secondo indicazione: non può avere un’autonomia, non può avere una volontà. E non cercate di farci credere che “la scelta è dolorosa”: voi non potete scegliere! In quanto al dolore, è il prezzo del piacere.»
La vita. Già.
L’aggressione verbale è riportata nella denuncia per ingiuria presentata al giudice di pace di Cassano d’Adda: «Il primario, noto antiabortista, ci ha insultate e diffamate — denunciano le donne — offendendo il nostro decoro e arrecandoci un danno morale». Dopo due rinvii, a dicembre si terrà l’udienza sul caso. Anche se entrambe le parti stanno cercando un accordo per evitare di arrivare al processo. Con il primario che, sebbene il suo avvocato Mario Brusa parli di un «fraintendimento tra le parti», sarebbe pronto a firmare una lettera di scuse e chiarimenti per archiviare l’accaduto. La direzione sanitaria ha già presentato le sue scuse.
Sotto accusa è anche la procedura che prevede di compilare la cartella clinica, preliminare all’aborto, in un atrio lungo la corsia del reparto. Pratica a cui nella struttura, si dice, si ricorre quando la sala visite è occupata, ma che in sostanza comporta la violazione della privacy delle donne. «Mentre iniziavamo il colloquio con il medico di turno venivamo accostate dal primario che ci aggrediva con insulti ad alta voce — si legge nel ricorso — così tutti i presenti venivano edotti della ragioni della nostra presenza nel reparto rendendo di pubblico dominio una scelta delicata e assolutamente personale».
Un episodio «lesivo della nostra dignità», tanto che una delle tre donne sarebbe stata anche identificata da una conoscente che passava di lì. «Le muove l’umiliazione subita in un momento delicato che nessuna donna affronta a cuor leggero», commenta l’a vvocato delle denuncianti, Ilaria Scaccabarozzi. La direzione dell’o spedale di Melzo precisa che in tema di accoglienza a chi vuole abortire «la paziente viene sottoposta alla raccolta dei dati sanitari e di degenza all’interno degli spazi deputati come previsto dal regolamento sulla privacy»."
(Ilaria Carra, "la Repubblica" on-line, 27 ottobre 2009)
«Assassina, sta uccidendo suo figlio», urla il ginecologo. Sul corridoio del reparto che dirige, in mezzo a pazienti, infermieri, strutturati.
«Non abortite: dateci in pasto i vostri figli. Dateli in pasto a questa Società: fateli diventare poveri; poveri di spirito, poveri di strumenti: poveri diavoli. Fateli soffrire. Abbandonateli alla loro vita: faticosa, incomprensibile, insopportabile. Fate perdere loro la dignità. Allora, allora sì che saranno vivi! Donne: voi siete un mezzo, non un fine; siete una necessità biologica. Scabrosa, come ogni necessità. Peccaminosa, fuori dallo scopo. Un mezzo deve agire secondo indicazione: non può avere un’autonomia, non può avere una volontà. E non cercate di farci credere che “la scelta è dolorosa”: voi non potete scegliere! In quanto al dolore, è il prezzo del piacere.»
La vita. Già.
lunedì 26 ottobre 2009
Il tuo sguardo nel mio - XIV (Roma)
venerdì 23 ottobre 2009
Oggi, 23 ottobre: mi son svegliato e...
Domani.
Domani è il 24 ottobre.
Chissà cosa accadrà: l'esperienza di questi mesi mi mette in guardia.
Sicuramente sarò a Roma.
Sicuramente ti penserò; e sarà più che negli altri giorni. E quindi non sarà proprio poco.
Mi auguro buon viaggio, caricando lo zaino in spalla: si va, si va.
Domani è il 24 ottobre.
Chissà cosa accadrà: l'esperienza di questi mesi mi mette in guardia.
Sicuramente sarò a Roma.
Sicuramente ti penserò; e sarà più che negli altri giorni. E quindi non sarà proprio poco.
Mi auguro buon viaggio, caricando lo zaino in spalla: si va, si va.
mercoledì 21 ottobre 2009
Naufragi.
«Mi tengo a quest’albero mutilato
Abbandonato in questa dolina
Che ha il languore
Di un circo
Prima o dopo lo spettacolo
E guardo
Il passaggio quieto
Delle nuvole sulla luna
Stamani mi sono disteso
In un’urna d’acqua
E come una reliquia
Ho riposato
L’Isonzo scorrendo
Mi levigava
Come un suo sasso
Ho tirato su
Le mie quattro ossa
E me ne sono andato
Come un acrobata
Sull’acqua
Mi sono accoccolato
Vicino ai miei panni
Sudici di guerra
E come un beduino
Mi sono chinato a ricevere
Il sole
Questo è l’Isonzo
E qui meglio
Mi sono riconosciuto
Una docile fibra
Dell’universo
Il mio supplizio
È quando
Non mi credo
In armonia
Ma quelle occulte
Mani
Che m’intridono
Mi regalano
La rara
Felicità
Ho ripassato
Le epoche
Della mia vita
Questi sono
I miei fiumi
Questo è il Serchio
Al quale hanno attinto
Duemil’anni forse
Di gente mia campagnola
E mio padre e mia madre.
Questo è il Nilo
Che mi ha visto
Nascere e crescere
E ardere d’inconsapevolezza
Nelle distese pianure
Questa è la Senna
E in quel suo torbido
Mi sono rimescolato
E mi sono conosciuto
Questi sono i miei fiumi
Contati nell’Isonzo
Questa è la mia nostalgia
Che in ognuno
Mi traspare
Ora ch’è notte
Che la mia vita mi pare
Una corolla
Di tenebre»
("I fiumi", G. Ungaretti; L'allegria)
Abbandonato in questa dolina
Che ha il languore
Di un circo
Prima o dopo lo spettacolo
E guardo
Il passaggio quieto
Delle nuvole sulla luna
Stamani mi sono disteso
In un’urna d’acqua
E come una reliquia
Ho riposato
L’Isonzo scorrendo
Mi levigava
Come un suo sasso
Ho tirato su
Le mie quattro ossa
E me ne sono andato
Come un acrobata
Sull’acqua
Mi sono accoccolato
Vicino ai miei panni
Sudici di guerra
E come un beduino
Mi sono chinato a ricevere
Il sole
Questo è l’Isonzo
E qui meglio
Mi sono riconosciuto
Una docile fibra
Dell’universo
Il mio supplizio
È quando
Non mi credo
In armonia
Ma quelle occulte
Mani
Che m’intridono
Mi regalano
La rara
Felicità
Ho ripassato
Le epoche
Della mia vita
Questi sono
I miei fiumi
Questo è il Serchio
Al quale hanno attinto
Duemil’anni forse
Di gente mia campagnola
E mio padre e mia madre.
Questo è il Nilo
Che mi ha visto
Nascere e crescere
E ardere d’inconsapevolezza
Nelle distese pianure
Questa è la Senna
E in quel suo torbido
Mi sono rimescolato
E mi sono conosciuto
Questi sono i miei fiumi
Contati nell’Isonzo
Questa è la mia nostalgia
Che in ognuno
Mi traspare
Ora ch’è notte
Che la mia vita mi pare
Una corolla
Di tenebre»
("I fiumi", G. Ungaretti; L'allegria)
martedì 20 ottobre 2009
domenica 18 ottobre 2009
venerdì 16 ottobre 2009
16.10.09 Il tuo sguardo nel mio - XII (Popolarità)
giovedì 15 ottobre 2009
Edilizia pubblica: la cassa chiusa di San Martino.
Giovedì 15 ottobre. Fa piuttosto freddo, per non dire molto. È una di quelle giornate nelle quali il vento spazza via foglie, polveri e pulviscolo atmosferico e rende, in questo modo, i confini netti come lame.
Scopro, passando casualmente per il quartiere di S. Martino, che è pure una di quelle giornate nelle quali il Comune di Trento spazza i cosiddetti anarchici come una massaia che rassetta l’uscio di casa. Li spazza via dall’asilo (abbandonato) del quartiere (quello, per intenderci, ribattezzato di recente “Assillo occupato”).
Non accorgersi dello sgombero in corso, del resto, è impossibile: il dispiegamento di forze di polizia è imponente. Sembra di essere allo stadio. O ad una piccola parata militare, se gli uomini in uniforme mantenessero un atteggiamento appena un po’ più composto.
Non sono solo i tanti poliziotti, però, a richiamare la mia attenzione. Quanto piuttosto un rumore ripetuto, insistente, del quale non riesco bene ad individuare la fonte. Poi, all’improvviso, capisco da dove giunge il rumore: lo produce una piccola betoniera, o qualcosa del genere. A quel punto, guardo la facciata dell’asilo.
È completamente murata. O meglio: è quasi completamente murata. Lo sarà, certamente, di lì a poco. Porte: sparite. Finestre: sparite. Operai dribblano poliziotti e appoggiano un mattone sull’altro, per chiudere la cassa.
Vengo colto da una profonda inquietudine. Nemmeno ci sono mai entrato, in quell’asilo: eppure mi sembra, lì per lì, di soffocarci dentro. È una sensazione che ha qualcosa di macabri.
Inizio a rimuginare. Concludo poco o niente; quel poco, è quanto segue. A pensarci, posso comprendere (sebbene sia ben lontano dal condividerle) le preoccupazioni degli abitanti del quartiere, i quali, forse, nemmeno avevano capito bene cosa stesse accadendo dentro quell’edificio abbandonato. Capisco pure le tensioni, istituzionali e non, del Comune; ed il suo dovere di controparte solida. Ci mancherebbe altro. Anzi: un atteggiamento saldo da parte del Comune è proprio ciò che può dare ulteriore valenza, se occorre, all’atto dell’occupazione.
Quello che davvero non riesco a spiegarmi, invece, sono due aspetti che riguardano l’epilogo della faccenda. Anzitutto, la totale chiusura ideologica. Assolutamente non dialogica. Giunta quasi improvvisamente, ma evidentemente ben premeditata - e conturbante perché laconica ed efficace come una lama. In secondo luogo, il gesto dello strangolamento: la muratura di porte e finestre. Un gesto violento, di una violenza silenziosa.
Sinceramente turbato, me ne sono tornato verso casa. Lasciando lì, per strada, la mia domanda: non c’è davvero altro modo?
Scopro, passando casualmente per il quartiere di S. Martino, che è pure una di quelle giornate nelle quali il Comune di Trento spazza i cosiddetti anarchici come una massaia che rassetta l’uscio di casa. Li spazza via dall’asilo (abbandonato) del quartiere (quello, per intenderci, ribattezzato di recente “Assillo occupato”).
Non accorgersi dello sgombero in corso, del resto, è impossibile: il dispiegamento di forze di polizia è imponente. Sembra di essere allo stadio. O ad una piccola parata militare, se gli uomini in uniforme mantenessero un atteggiamento appena un po’ più composto.
Non sono solo i tanti poliziotti, però, a richiamare la mia attenzione. Quanto piuttosto un rumore ripetuto, insistente, del quale non riesco bene ad individuare la fonte. Poi, all’improvviso, capisco da dove giunge il rumore: lo produce una piccola betoniera, o qualcosa del genere. A quel punto, guardo la facciata dell’asilo.
È completamente murata. O meglio: è quasi completamente murata. Lo sarà, certamente, di lì a poco. Porte: sparite. Finestre: sparite. Operai dribblano poliziotti e appoggiano un mattone sull’altro, per chiudere la cassa.
Vengo colto da una profonda inquietudine. Nemmeno ci sono mai entrato, in quell’asilo: eppure mi sembra, lì per lì, di soffocarci dentro. È una sensazione che ha qualcosa di macabri.
Inizio a rimuginare. Concludo poco o niente; quel poco, è quanto segue. A pensarci, posso comprendere (sebbene sia ben lontano dal condividerle) le preoccupazioni degli abitanti del quartiere, i quali, forse, nemmeno avevano capito bene cosa stesse accadendo dentro quell’edificio abbandonato. Capisco pure le tensioni, istituzionali e non, del Comune; ed il suo dovere di controparte solida. Ci mancherebbe altro. Anzi: un atteggiamento saldo da parte del Comune è proprio ciò che può dare ulteriore valenza, se occorre, all’atto dell’occupazione.
Quello che davvero non riesco a spiegarmi, invece, sono due aspetti che riguardano l’epilogo della faccenda. Anzitutto, la totale chiusura ideologica. Assolutamente non dialogica. Giunta quasi improvvisamente, ma evidentemente ben premeditata - e conturbante perché laconica ed efficace come una lama. In secondo luogo, il gesto dello strangolamento: la muratura di porte e finestre. Un gesto violento, di una violenza silenziosa.
Sinceramente turbato, me ne sono tornato verso casa. Lasciando lì, per strada, la mia domanda: non c’è davvero altro modo?
lunedì 12 ottobre 2009
Nota a margine
I fatti. Lara Favaretto ha circondato (o cercato di circondare) la statua di Dante, nell'omonima piazza, di sacchi di sabbia. Installazione finanziata dalla Galleria Civica. Per qualcuno avranno ricordato pure l'alluvione del '66. Tutti (cittadini e giornalisti) si sono lamentati. Il presidente della Civica, Danilo Eccher, si è incazzato. Alcuni vandali hanno danneggiato l'involucro sabbioso. La Favaretto si è platealmente disperata, come in un cartone animato.
Ora. Concordo con la maggioranza (poco) silenziosa: l'installazione di Piazza Dante, come opera d'arte, pare davvero debole.
Se veramente è costata 160000 euro, direi che non sembra esserci grande corrispondenza tra valore (materiale e artistico) e prezzo.
A questo proposito, mi è venuto il dubbio che si tratti, in realtà, di una performance: creata parlando di cifre davvero sproporzionate e veicolando intorno ad una semplice disposizione di sacchi un'attenzione mediatica gigantesca (danneggiamento -forse inscenato- compreso).
Se così fosse, direi che l'artista ha colpito nel segno.
La discussione, allora, una volta di più, potrebbe e dovrebbe essere sul merito dell'arte contemporanea; ma questa diventerebbe spinosa e infinita.
Al di là di tutto questo, però, trovo che il vero scempio, la vera indecenza siano i luoghi comuni. "Sono soldi dei cittadini". Per carità, sì. Anche quelli che danno agli Schützen, se è per questo. Forse che gli schioppi e i pantaloni alla zuava sono un investimento migliore?
Lamentare, lamentare, lamentare. Lamentare a vuoto: è solo un esercizietto. Galvanizzante nella sua puerile sterilità.
Ciò che può essere razionalmente criticato, tutt'al più, a mio avviso, è la direzione artistica della Galleria civica. Perché se sono gli enti governativi locali a stanziare i finanziamenti per la cultura, è chi poi fa cultura a gestire e organizzare questi finanziamenti come meglio crede. Cosa si intende insinuare, dicendo che l'assessore competente ha sbagliato? Che l'assessore stesso avrebbe dovuto ingerire nelle scelte della Galleria? Che la cultura è sovrafinanziata?
Al solito, assecondando un'indignazione facile facile, finiremo magari per dire ancora che settant'anni fa i treni arrivavano in orario. Bella forza. O, davanti alle macchinette del caffè, ci troveremo a scambiare due chiacchiere sull'eliminazione del lunedì mattina. Banalità, banalità, banalità...
Ora. Concordo con la maggioranza (poco) silenziosa: l'installazione di Piazza Dante, come opera d'arte, pare davvero debole.
Se veramente è costata 160000 euro, direi che non sembra esserci grande corrispondenza tra valore (materiale e artistico) e prezzo.
A questo proposito, mi è venuto il dubbio che si tratti, in realtà, di una performance: creata parlando di cifre davvero sproporzionate e veicolando intorno ad una semplice disposizione di sacchi un'attenzione mediatica gigantesca (danneggiamento -forse inscenato- compreso).
Se così fosse, direi che l'artista ha colpito nel segno.
La discussione, allora, una volta di più, potrebbe e dovrebbe essere sul merito dell'arte contemporanea; ma questa diventerebbe spinosa e infinita.
Al di là di tutto questo, però, trovo che il vero scempio, la vera indecenza siano i luoghi comuni. "Sono soldi dei cittadini". Per carità, sì. Anche quelli che danno agli Schützen, se è per questo. Forse che gli schioppi e i pantaloni alla zuava sono un investimento migliore?
Lamentare, lamentare, lamentare. Lamentare a vuoto: è solo un esercizietto. Galvanizzante nella sua puerile sterilità.
Ciò che può essere razionalmente criticato, tutt'al più, a mio avviso, è la direzione artistica della Galleria civica. Perché se sono gli enti governativi locali a stanziare i finanziamenti per la cultura, è chi poi fa cultura a gestire e organizzare questi finanziamenti come meglio crede. Cosa si intende insinuare, dicendo che l'assessore competente ha sbagliato? Che l'assessore stesso avrebbe dovuto ingerire nelle scelte della Galleria? Che la cultura è sovrafinanziata?
Al solito, assecondando un'indignazione facile facile, finiremo magari per dire ancora che settant'anni fa i treni arrivavano in orario. Bella forza. O, davanti alle macchinette del caffè, ci troveremo a scambiare due chiacchiere sull'eliminazione del lunedì mattina. Banalità, banalità, banalità...
Chiacchiere da bar (alias: la banalità, anche senza male)
«Quello che succede a noi succede a tutti o solo a noi; nel primo caso è banale, nel secondo è incomprensibile».
(F. Pessoa)
In coda per prendere un surrogato del caffè da un surrogato di organo meccanico, osservo e origlio, come sempre faccio, la coppia di ragazzini davanti a me.
"...un altro lunedì."
"Io lo abolirei, il lunedì. Almeno la mattina. Sono troooppo stanco!.."
...
...ma non c'è bisogno di dire
qualcosa
per forza.
Non c'è bisogno di esternare il niente.
Le forzature sono faticose. E affaticanti.
(F. Pessoa)
In coda per prendere un surrogato del caffè da un surrogato di organo meccanico, osservo e origlio, come sempre faccio, la coppia di ragazzini davanti a me.
"...un altro lunedì."
"Io lo abolirei, il lunedì. Almeno la mattina. Sono troooppo stanco!.."
...
...ma non c'è bisogno di dire
qualcosa
per forza.
Non c'è bisogno di esternare il niente.
Le forzature sono faticose. E affaticanti.
C'eravamo tanto amati #1
Sono stanco
stanco
stanco
stanco.
Questo
incerto,
imbarazzante,
faticoso
trascinarsi
non mi interessa
più.
stanco
stanco
stanco.
Questo
incerto,
imbarazzante,
faticoso
trascinarsi
non mi interessa
più.
venerdì 9 ottobre 2009
Ti ricordi?
Tu dentro l'aula a fare l'esame con Fois, Candido come i suoi capelli e il fumo del suo sigaro. Lui fuori, a passeggiare sul corridoio, con il sigaro, appunto; lui fuori a passeggiare e chiacchierare al telefono. Tu lì dentro ad aspettare. Il legno un po' lugubre ai muri del Bo, un legno caldo e unto di passaggi e sudori e sforzi per il pane. Ed io pure, fuori; io pure ad aspettare. Ad aspettare te.
Non m'importa di nient'altro. Mi manchi.
Molto.
Tu dentro l'aula a fare l'esame con Fois, Candido come i suoi capelli e il fumo del suo sigaro. Lui fuori, a passeggiare sul corridoio, con il sigaro, appunto; lui fuori a passeggiare e chiacchierare al telefono. Tu lì dentro ad aspettare. Il legno un po' lugubre ai muri del Bo, un legno caldo e unto di passaggi e sudori e sforzi per il pane. Ed io pure, fuori; io pure ad aspettare. Ad aspettare te.
Non m'importa di nient'altro. Mi manchi.
Molto.
giovedì 8 ottobre 2009
lunedì 5 ottobre 2009
«Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.»
(C. Pavese, 22.03.1950)
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.»
(C. Pavese, 22.03.1950)
La messa è finita. Andate affanculo.
«Una costellazione di delusioni e disillusioni.
Ecco, come definirei questa esistenza.
Un disfacimento. Senza uno scopo. Senza ritmo. Senza speranze, o possibilità.
Imprigionato nella stringenza di una secca, distaccata ineluttabilità. Arrancare non è camminare; e strisciare è cosa per i vermi. Per me, qui si esaurisce ciò che può sembrare ragionevole. E lascia carta bianca ad una non giustificata insensatezza. Mortifera.
Se avessi più faccia tosta, la farei finire qua. Così.»
Ecco, come definirei questa esistenza.
Un disfacimento. Senza uno scopo. Senza ritmo. Senza speranze, o possibilità.
Imprigionato nella stringenza di una secca, distaccata ineluttabilità. Arrancare non è camminare; e strisciare è cosa per i vermi. Per me, qui si esaurisce ciò che può sembrare ragionevole. E lascia carta bianca ad una non giustificata insensatezza. Mortifera.
Se avessi più faccia tosta, la farei finire qua. Così.»
domenica 4 ottobre 2009
venerdì 2 ottobre 2009
Iscriviti a:
Post (Atom)