lunedì 16 marzo 2009

Certamente. Certamente cinghiali.

«Sono da solo. Mi hanno lasciato solo. Devo stare solo. Lui dice che soltanto in solitudine si può ragionare con la necessaria calma. Lui chi? Non ricordo; solo il volto. Forse mi confondo. Ho estrema necessità di ragionare. Di riflettere. Necessità di calma. Di capire.
Sono pareti sottili quelle che mi separano dal mondo, ma in verità il mondo fuori da questo loculo di cartone, nel quale dormo e mangio e vado di corpo, è fatto solo di sabbia, rovi che rotolano e sbattono, carcasse di automobili e di animali. Carcasse. Anche animali, vivi. Anche cinghiali? Non lo so. Certamente. Certamente cinghiali. Carcasse di cinghiali. Non ci sono grattacieli, né berline lussuose, non ci sono uomini indaffarati. Ammesso che. Dato per scontato che non si possano considerare uomini, o peggio donne, quegli spettri che si aggirano deformati e mostruosi tra una roulotte e l’altra. Senza pace. Apparentemente. Ammesso apparentemente.
Io devo restare solo, appunto, qui; voglio restare qui. Lasciatemi qui. Lasciatelo qui. Seduto di fronte ai fornelli, alla rotondità provocante dei fornelli. A sorvegliare la ruggine che mordicchia senza sosta, famelica; divora, con la lentezza di un grande serpente, con determinazione, il freddo dei fornelli e quello della griglia, di sopra. Che sovrasta. Li domina. Sottomette. Sebbene intransigenti.
Devo capire, ho bisogno di riflettere. Attentamente; ragionare; bisogno di pensare. E prima di tutto devo ricordarmi di cosa devo pensare – idea, questa, chiara fino a minuti fa, non so di preciso quanti, ma sicuramente più di dieci, meno di cinquecento.
A distrarmi sono loro, di certo. Rumore del generatore di corrente – il suo forte odore di combustibile. Mi distraggo. No. Sono sviato. Ritorno distrattamente a quella scatola rossa e alle valvole nere, al filo mangiucchiato dai topi. Calma. Ci sono le ragnatele abbandonate di ragni senza pace. Scappati via come topi. Ma ragni. Mi incespico nei tubi fulvi, come mille altre volte ho fatto, e mi sento cadere sulla sabbia, mentre una nuvola si alza, una nuvola riempie le narici e copre con il suo velo polveroso il remoto odore di sangue che avverto nel breve volo. Una nuvola polverosa. Mi incespico nei tubi caldi. Ma io sono ancora qui, e la ruggine continua a ruminare, e l’unico indizio di una possibile caduta è incrostato sulle mie ginocchia storte; chissà, però, quando è accaduto, quando, insomma, quello strato si è sovrapposto agli altri. Mescolato. Per adesso può bastare così.
L’oblò illumina gli oggetti che mi hanno disposto d’attorno; a volte è notte, a volte c’è luce. Illuminati, in ombra. La polvere è anche su di esso; sull’oblò, intendo. Cristallizzata nelle gocce di pioggia che non l’hanno lavata. Neanche io ho l’ho lavata; né dall’oblò, né dalle ginocchia. Né dalla faccia. Forse non ho provato a farlo, dieci o cinquecento o tre minuti fa. Non ricordo. Non bene. Peggio di bene.
Sono di sbieco per quella finestra ocra. Vedo gli spettri. Qualcuno si avvicina, certe volte, ma io batto i piedi in terra, insieme, fino a sentire male alle ginocchia e alle piante dei piedi; e loro se ne vanno, o forse si spostano solo un poco, per farmi smettere. Si nascondono fuori dall’oblò. Per dispetto. Piuttosto che amici. Compagni. Ancorché dispettosi. Meglio compagni. Certe altre volte è necessario che prenda il mio bastone e lo sbatta, per il manico, contro la plastica, per convincerli. Che devono lasciarmi. Meglio lasciarmi. Meglio lasciarlo.
Non mi serve uscire da qui. Qualcuno, non so chi sia – confondo il suo volto con quello di altri, mi porta del cibo, di tanto in tanto. Io mangio poco. Non sento lo stimolo. Niente stimoli. Quel che basta per finire le vivande prima che lui ritorni, per non farlo arrabbiare, per non farmi picchiare. Il resto del tempo lo passo qui, il più possibile fermo per non sentire male. Se non devo sbattere. Remoto odore di sangue. Se non si avvicinano. Peggio sbattere, se non meglio non si avvicinano. Meglio calma.
Ora che comincia piano piano a piovere; lo sento. In ascolto e capire. So che piove perché sento il ticchettio sul tetto, quel rumore di aghi di pino. Foreste dove un giorno sono stato; ero stato. Starò seduto, con la schiena inarcata sul cuscino; poi sdraiato, di tanto in tanto, per riposarla. Meglio fetale o supino? Non lo so. Per adesso non lo so. Per adesso la ruggine digerisce il suo pasto. Per adesso starò – ancora un po’ – così.»

2 commenti:

Anonimo ha detto...

...più ti leggo e meno ti capisco, è grave o è il processo naturale di conoscenza?...
;)

luca ha detto...

No, grave no di certo.
Forse, sì, questo è un processo di conoscenza. E non sempre bisogna capire, no?