martedì 31 marzo 2009

Io sto bene, io sto male, io non so come stare

Come dicevo ieri ad un amico, in questo periodo sopporto peggio del solito le contraddizioni, le incongruenze e le velate ipocrisie.
Le grandi dichiarazioni lasciano sempre il tempo che trovano; ma in questi giorni le percepisco come ancora più grottesche e deformate. E deformanti.
Che bisogno c'è di assumersi ruoli impropri e non gestibili? Quante cicale, quante formiche; "a ciascuno il suo", come diceva qualcun altro meglio di me?
Una lunga lista di stracciatori di vesti. Ecco tutto.
Mamma mia.

domenica 29 marzo 2009

Profeti molto acrobati della rivoluzione, oggi farò da me, senza lezione.

"Dedicato a tutti quelli che stanno scappando"
(G. Salvatores, Mediterraneo, 1991)

«smania –
smania di –
di –
qual è la parola –
smania da questo –
fin da questo –
dato –
smania dato questo di –
visto –
smania visto questo –
questo –
qual è la parola –
questo –
questo questo –
questo qui –
tutto questo questo qui –
smania dato tutto questo –
visto –
smania visto tutto questo questo qui di –
di –
qual è la parola –
vedere –
intravedere –
credere d'intravedere –
volere credere d'intravedere –
smania di voler credere d'intravedere quale –
quale –
qual è la parola –
e dove –
smania di voler credere d'intravedere quale dove –
dove –
qual è la parola –
là –
laggiù –
lontano –
là lontano laggiù –
a fioco –
là lontano laggiù a fioco quale –
quale –
qual è la parola –
visto tutto questo –
tutto questo questo qui –
smania di vedere quale –
intravedere –
credere d'intravedere –
volere credere d'intravedere –
là lontano laggiù a fioco quale –
smania di voler credere d'intravedere quale –
quale –
qual è la parola –

qual è la parola»

(S. Beckett, "Qual è la parola", trad. G. Frasca)

«Sguardo fisso incollato allo sguardo fisso. Macchie confuse di schiene ricurve nello sguardo fisso incollato allo sguardo fisso. Due buchi neri. Di un nero fosco. Dentro attraverso il cranio fino alla sostanza molle. Fuori dalla sostanza molle attraverso il cranio. A bocca aperta nel viso invisibile. Questa dunque la crepa? La mancanza di crepa? Tentare meglio peggio di incastonare il cranio. Due buchi neri nell'avancranio. Oppure uno soltanto. Tentare ancora meglio peggio uno soltanto. Un unico fosco buco nero in mezzo all'avancranio. Dentro cui l'inferno del tutto. Fuori cui l'inferno del tutto. Così meglio che niente dire peggio lo sguardo fisso da adesso.»

«E se il cranio se ne andasse? Praticamente se ne andasse? Dentro che cosa allora il buco nero? Fuori da cosa allora? Quale mai perché al tutto? Meglio peggio così? No. Meglio peggio il cranio. Quanto rimasto del cranio. Di molle. Pessimo fra tutti i perché al tutto. Non vada via dunque il cranio. Non vada via quanto rimasto del cranio. E in questo ancora il buco. Al cui interno quanto resta di molle. Dal cui interno quanto poco ne resta.

Basta. Tutto a un tratto basta. Tutto a un tratto tutto lontano. Neanche una mossa e tutto un tratto tutto lontano.Tutto al minimo. Tre spilli. Un unico buco di spillo. Nel foschimassimo fosco. A vastità di distanza. Ai limiti del vuoto illimitato. Oltre cui non oltre. Ottimo peggio non oltre sia. In nessun modo meno. In nessun modo peggio. In nessun modo niente. In nessun modo ancora.

Detto in nessun modo ancora.»

(S. Beckett, "Peggio tutta", trad. G. Frasca)

Non c'è per forza bisogno di tutti. Forse per forza c'è bisogno di pochi. Meglio peggio così? Non lo so.
Ma quante poche parole bastano, basterebbero, non sono bastate...

La mia povera moto.

Giovedì scorso la mia moto

la mia Moto Guzzi V7 Classic

è stata travolta, trascinata, calpestata, insieme al sottoscritto, da un mezzo della nettezza urbana. Dico "mezzo", perché non lo si può definire un "intero", quel maledetto furgone.
Abbattuta. Fatta strisciare sull'asfalto. Schiacciata sotto una ruota.
Umiliata.

Povera lei, poveri noi...

lunedì 23 marzo 2009

Le ho accompagnate fuori, mentre dentro la cena era solo da servire.
Fuori, con le loro borse da viaggio, che sembrava dovessero essere issate sul tetto di una diligenza, più che nel bagagliaio di un’automobile bianca.
E ci siamo abbracciati; e le lacrime non è che se ne siano state proprio, proprio a distanza. Prima o poi andava affrontato anche questo, no? Gli anni condivisi, dolci e struggenti... il ricordo di lei, ponte fra noi.
Accidenti, piango anche adesso...
Sono felice di averle viste.

sabato 21 marzo 2009

Vedo un cielo piuttosto terso. Sarà il vento.
Me ne vado a comprare un rullino per la Diana.

venerdì 20 marzo 2009

Tre mesi.
Accidenti.
Con la nostalgia sempre più forte – l’assenza – ma come è possibile, come è stato possibile?
Resto incantato nel ricordo. Dolce e struggente.

giovedì 19 marzo 2009

Come nei tubi. Catodici?

Non ne ho scritto, fino ad oggi. Ho lasciato il fenomeno de “The Bastard Sons of Dioniso” lontano dalle mie pagine. Perché quella porcheria che è X-Factor è troppo lontana da me (e, per fortuna, sono riuscito a tenerla a distanza); e perché in fondo quei tre “sdrameloni” mi sono sempre stati simpatici, nonostante tutto. Nonostante tutto.
Oggi, forse, però, è il caso di lasciare qualche annotazione.
Io “The Bastard Sons of Dioniso” li ho sentiti suonare dal vivo più di una volta. Ho apprezzato particolarmente il loro repertorio acustico (Crosby, Stills & Nash: davvero niente male). Li ho trovati divertenti e genuini, nella loro pittoresca zoticaggine.
Poi il disco si è inceppato. La partecipazione all’orrendo programma ha levato la genuinità e lasciato solo la zotichezza. I poveretti si sono coperti di ridicolo, seguendo i rigidi dettami di sedicenti musici e oscuri stilisti.
Hanno perso completamente la loro identità, in nome di una fruibilità pop di basso profilo. E non che quell’identità fosse particolarmente marcata: ma esisteva – si era ricavata una sua nicchia di dignità.
Questa sera “The Bastard Sons of Dioniso” torneranno ad esibirsi in regione. Millecinquecento fan andranno a sentirli, a Borgo (!), dentro ad un palazzetto; e chissà quanti altri se ne staranno di fuori, poco distante, al freddo (altro che primavera, in Valsugana), ad osservarli mentre vengono proiettati su un maxischermo.
Il problema, a questo punto, non riguarda più i tre. Ma piuttosto il contorno che s’è creato. Quei millecinquecento e più saranno gli stessi che, mentre TBSOD suonavano nell’atrio della Facoltà di Sociologia, se ne stavano fuori a fumare, incuranti e annoiati; gli stessi che se ne andavano a metà concerto, o che neppure ci andavano, al concerto. Cosa è cambiato? Lo show business. Solo televisione di misero livello, fenomeni (di massa) e massificazione.
Gente che va solo per divertirsi, ovvio. Gente che non c’entra niente. Gente che non ha responsabilità di niente. Niente di niente. Solo per divertirsi. Niente per divertirsi.
C’è un che di piduista in tutto questo. Questo è controllo sociale.
Come diceva il vecchio Igor: «Avanti, andate avanti! Andate ad ammucchiarvi come la merda nei tubi!». Considero gli spettatori di stasera conniventi con questo Governo inguardabile, complici dell’ideologia berlusconiana. Incapaci di opporsi, ed anzi pronti ad assecondare, perché "cosa c'entra? io vado solo per divertirmi!". Li considero corresponsabili dello stato in cui versa la nostra democrazia. Nei tubi.

Il cielo sopra Trento.








mercoledì 18 marzo 2009

Stiamo lavorando per voi (alias: lasciatemi lavorare)

«NAPOLI - Si dice "disperato". E torna a ripetere quanto il lavoro del politico gli "faccia schifo". Serata di svago per Silvio Berlusconi al teatro Quirino di Napoli. Ieri sera tra il primo e il secondo atto il premier si concede un bagno di folla. "Sono otto settimane che non faccio un giorno di riposo" scherza nel foier con il pubblico. "Ma lei si diverte", lo punzecchia una signora. "No, a me non piace quello che faccio - replica il Cavaliere - lo faccio solo per senso di responsabilità. Mi fa schifo quello che faccio. Sono disperato...".
"Sono abituato a lavorare - riprende Berlusconi sorridendo - pensi che per 21 giorni non ho mai dormito due notti consecutive nello stesso letto". "E' stata una tourneè", ribatte un signore. "No - risponde il Cavaliere - perché in tourneè si recita sempre la stessa parte. Io ogni giorno devo invece cambiarla".
Non è la prima volta che Berlusconi tocca il tasto del "sacrificio" che gli costerebbe fare il lavoro del politico. Quello stesso che più volte ha sbeffeggiato pubblicamente, attaccando "i politici di professione", quelli "solo chiacchiere" e "niente fatti". Opponendoli a quelli come lui, gli uomini "del fare". Ricordando, con orgoglio, la sua ascesa imprenditoriale.
Sospirando quando elenca le sue innumerevoli case al mare, dalla Sardegna ai Caraibi, che non si può "godere". Elencando minuziosamente i tempi sempre più stretti della sua giornata. "Dormo poche ore al giorno e il resto lavoro" ha ripetuto più volte. "Sono uno di voi" non perde occasione per dire ogni volta che si presenta davanti ad una platea di industriali. Uno di loro che però da 15 anni resta tenacemente attaccato a quel lavoro che, di tanto in tanto, dice di detestare. Ma di cui, evidentemente, non può fare a meno. "Ma solo per il bene degli altri". Ovviamente.»
("la Repubblica" on-line, 17 marzo 2009)

Che tenerezza.
Alcune annotazioni:
(i) anche noi siamo disperati; perché non venirci incontro? Lui si toglie dai coglioni, noi ci sentiamo più leggeri.
(ii) per 21 giorni non ha mai dormito due notti consecutive nello stesso letto? Probabilmente a causa delle sua abitudini sessuali (anche se non lo smarcherei parlando semplicemente di priapismo: nel suo atteggiamento c'è qualcosa di molto meno biologico e molto più maniacale).
(iii) ogni giorno deve cambiare parte. Non dev'essere semplice mantenere sempre la faccia come il culo mentre ci si smentisce, si rimangia ciò che si è detto, si mente, si bluffa, si finge.
(iv) il discorso "solo chiacchiere" e "niente fatti" ricorda molto da vicino la celebre frase "sei solo chiacchiere e distintivo" sbraitata da De Niro/Capone a Kostner/Ness ne "Gli intoccabili". Il gangster contro le istituzioni. Splendido.
(v) lavora per il nostro bene. Evidentemente, io non voglio il mio bene.
Che dire? Che tenerezza.
Silvio Berlusconi, non sei solo un piduista: sei anche uno stronzo.

martedì 17 marzo 2009

La sua Africa

«L'epidemia di Aids "non si può superare con la distribuzione dei preservativi che, anzi aumentano i problemi": è quanto ha affermato Benedetto XVI, durante il suo viaggio verso l'Africa. Il Papa ha indicato come unica strada efficace quella di un "rinnovo spirituale e umano" nella sessualità.
Il Papa ha ricordato che la chiesa cattolica fa tanto in Africa contro l'Aids. "E' una tragedia che non si può superare solo con i soldi, non si può superare con la distribuzione di preservativi, che anzi aumentano i problemi". Serve invece, ha proseguito, un comportamento umano morale e corretto e una grande attenzione verso i malati: "soffrire con i sofferenti".»
(da "la Repubblica" on-line, 17 marzo 2009)

Che bellezza, mi sento rinnovato. Spiritualmente, s'intende.
Eccola, la strada. Perché non ci avevo pensato prima?
I problemi del mondo saranno risolti quando saremo tutti più buoni. È geniale! Perché, ripeto, perché non ci avevo pensato prima?
Nel frattempo, ovviamente: come on. Bentornato a casa, Mr. AIDS.

Ignorante.

Nostalgia.

Semplicemente nostalgia.

lunedì 16 marzo 2009

Certamente. Certamente cinghiali.

«Sono da solo. Mi hanno lasciato solo. Devo stare solo. Lui dice che soltanto in solitudine si può ragionare con la necessaria calma. Lui chi? Non ricordo; solo il volto. Forse mi confondo. Ho estrema necessità di ragionare. Di riflettere. Necessità di calma. Di capire.
Sono pareti sottili quelle che mi separano dal mondo, ma in verità il mondo fuori da questo loculo di cartone, nel quale dormo e mangio e vado di corpo, è fatto solo di sabbia, rovi che rotolano e sbattono, carcasse di automobili e di animali. Carcasse. Anche animali, vivi. Anche cinghiali? Non lo so. Certamente. Certamente cinghiali. Carcasse di cinghiali. Non ci sono grattacieli, né berline lussuose, non ci sono uomini indaffarati. Ammesso che. Dato per scontato che non si possano considerare uomini, o peggio donne, quegli spettri che si aggirano deformati e mostruosi tra una roulotte e l’altra. Senza pace. Apparentemente. Ammesso apparentemente.
Io devo restare solo, appunto, qui; voglio restare qui. Lasciatemi qui. Lasciatelo qui. Seduto di fronte ai fornelli, alla rotondità provocante dei fornelli. A sorvegliare la ruggine che mordicchia senza sosta, famelica; divora, con la lentezza di un grande serpente, con determinazione, il freddo dei fornelli e quello della griglia, di sopra. Che sovrasta. Li domina. Sottomette. Sebbene intransigenti.
Devo capire, ho bisogno di riflettere. Attentamente; ragionare; bisogno di pensare. E prima di tutto devo ricordarmi di cosa devo pensare – idea, questa, chiara fino a minuti fa, non so di preciso quanti, ma sicuramente più di dieci, meno di cinquecento.
A distrarmi sono loro, di certo. Rumore del generatore di corrente – il suo forte odore di combustibile. Mi distraggo. No. Sono sviato. Ritorno distrattamente a quella scatola rossa e alle valvole nere, al filo mangiucchiato dai topi. Calma. Ci sono le ragnatele abbandonate di ragni senza pace. Scappati via come topi. Ma ragni. Mi incespico nei tubi fulvi, come mille altre volte ho fatto, e mi sento cadere sulla sabbia, mentre una nuvola si alza, una nuvola riempie le narici e copre con il suo velo polveroso il remoto odore di sangue che avverto nel breve volo. Una nuvola polverosa. Mi incespico nei tubi caldi. Ma io sono ancora qui, e la ruggine continua a ruminare, e l’unico indizio di una possibile caduta è incrostato sulle mie ginocchia storte; chissà, però, quando è accaduto, quando, insomma, quello strato si è sovrapposto agli altri. Mescolato. Per adesso può bastare così.
L’oblò illumina gli oggetti che mi hanno disposto d’attorno; a volte è notte, a volte c’è luce. Illuminati, in ombra. La polvere è anche su di esso; sull’oblò, intendo. Cristallizzata nelle gocce di pioggia che non l’hanno lavata. Neanche io ho l’ho lavata; né dall’oblò, né dalle ginocchia. Né dalla faccia. Forse non ho provato a farlo, dieci o cinquecento o tre minuti fa. Non ricordo. Non bene. Peggio di bene.
Sono di sbieco per quella finestra ocra. Vedo gli spettri. Qualcuno si avvicina, certe volte, ma io batto i piedi in terra, insieme, fino a sentire male alle ginocchia e alle piante dei piedi; e loro se ne vanno, o forse si spostano solo un poco, per farmi smettere. Si nascondono fuori dall’oblò. Per dispetto. Piuttosto che amici. Compagni. Ancorché dispettosi. Meglio compagni. Certe altre volte è necessario che prenda il mio bastone e lo sbatta, per il manico, contro la plastica, per convincerli. Che devono lasciarmi. Meglio lasciarmi. Meglio lasciarlo.
Non mi serve uscire da qui. Qualcuno, non so chi sia – confondo il suo volto con quello di altri, mi porta del cibo, di tanto in tanto. Io mangio poco. Non sento lo stimolo. Niente stimoli. Quel che basta per finire le vivande prima che lui ritorni, per non farlo arrabbiare, per non farmi picchiare. Il resto del tempo lo passo qui, il più possibile fermo per non sentire male. Se non devo sbattere. Remoto odore di sangue. Se non si avvicinano. Peggio sbattere, se non meglio non si avvicinano. Meglio calma.
Ora che comincia piano piano a piovere; lo sento. In ascolto e capire. So che piove perché sento il ticchettio sul tetto, quel rumore di aghi di pino. Foreste dove un giorno sono stato; ero stato. Starò seduto, con la schiena inarcata sul cuscino; poi sdraiato, di tanto in tanto, per riposarla. Meglio fetale o supino? Non lo so. Per adesso non lo so. Per adesso la ruggine digerisce il suo pasto. Per adesso starò – ancora un po’ – così.»

Luca era un piccione

(Per il seguente testo si ringrazia la creatività di Giuseppe Povia, autore delle parole.)

Io non ho letto.
Non sono andato da psicologi, psichiatri, preti o scienziati,
sono andato nel mio passato, ho scavato e ho capito tante cose di me.
Più o meno come fa un piccione.
Prima di raccontare il mio cambiamento sessuale volevo chiarire che
se credo in Dio non mi riconosco nel pensiero dell’uomo, che su questo
argomento è diviso.
Lo so che è brutto il paragone, avevo 12 anni non capivo bene:
c’è un topolino, c’è un cagnolino; e un piccione vola basso.
Senza qualcuno nessuno può diventare un uomo.
Luca era gay
come un piccione a piedi nudi sull'asfalto:
ma che scemo.
Evviva i pazzi che hanno capito cos'è l'amore.
Nessuna malattia, nessuna guarigione:
ognuno è perfetto, mentre Luca era gay!
Dimmi che ci credi e che ti fidi.
Luca era gay,
è per questo che anche io non lo sopporto.
Luca era gay:
è un lupo nero che dà un bacino (smack)
a un agnellino.
Lo so che è brutto il paragone.
Io voglio andare a gattoni,
più o meno come fa un piccione.
Chi guida crede che mi mette sotto
ma io con un salto, all'ultimo momento,
volerò. Ma non troppo in alto.
Mi vergogno un po'
perché non so più fare "oh!".
Oh, ce l'ha fatta mia nonna per 50 anni con mio nonno in campagna:
l'amore sopra il cornicione. Dopo poco tempo cominciò a bere.
Luca dice: «Lo sai quante volte non pensavo a tuo nonno?»,
mi piglia perché i bambini non hanno peli né sulla pancia,
né sulla lingua. Ma col ditino ad alta voce,
almeno loro (eh)!
I bambini sono molto indiscreti, come i poeti.
Oh mamma mia, bada!
Ti sei fatto la bua? È colpa tua.
Luca era gay, però adesso sta con un altro uomo.
Luca era gay, però adesso sta con i bambini. Fanno “oh”.
Luca era gay, però adesso sta con un piccione.
Luca era gay, però adesso sta come un piccione.
Luca era lei.
Gay.
Cosa ci fanno due piccioni in una favola?
Due cuori sotto una campana.
Gay.
Perché il segreto è volare basso.
...nananananananananana...

(LF&GVDR)

giovedì 12 marzo 2009

Ticket to ride.

Londra, arriv(erò)o!

martedì 10 marzo 2009

Dove sorge il sol dell'avvenir.

«Ancora. Dire ancora. Sia detto ancora. In qualche modo ancora. Finché non sia in nessun modo ancora. Detto in nessun modo ancora.»; ma la Juve è uscita davvero?; ma uscita da cosa?; la Juve è uscita dalla casa del Grande Fratello; la Juve è la talpa; «Tutto solito. Nient'altro mai. Mai tentato. Mai fallito. Fa niente. Tentare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio.»; è morta la talpa: viva la talpa; Hamilton, il membro dell'impero: hostess in rosso al congresso del partito; i neolaureati pagano la recessione, ma la star è il fotografo Testino; "due benzinai, una chiesa e un supermercato"; ognuno segue il suo testino; tagliare i capelli, tagliati i capelli; tagliati i capelli, che ne resta della testa?; «...niente Babbo Natale, niente Sorcetta, niente Bacchetta Magica, niente Cenerentola, niente Maestri d'Ogni Tempo - cucù - solo merda e frustate per i cani e i bambini»; cos'è una tempesta di sabbia, se c'è il sole?; ma poi domani c'è il sole?; MeteoTrentino; MeteoTestino; presente Don King? si può definirlo "procuratore distrettuale"?; per adesso basta così; «Il vuoto. Come tentare di dirlo? Come tentare di fallirlo? Senza tentare di non fallire. Dirlo soltanto –

al lavoro! (come desidera la sig.na Zilio)





...per non assomigliare troppo a me.

lunedì 9 marzo 2009

...and all the children are insane...




...waiting for the summer rain...

domenica 8 marzo 2009

Per la buonanotte/in giornata...

...il 3-0 del Bologna (Di Vaio Di Vaio Di Vaio); "Un pesce di nome Wanda" e Kevin Kline che mangia pesci dall'acquario e dichiara "Non abbiamo perso in Vietnam; abbiamo pareggiato."; i Katzenjammer Kids (bis); ciao Sara negli States, ti pensiamo; anellini e mercatini; le foto che non sono riuscito a fare, incolpando la luce, alcuni passanti, le auto, il vento che non c'era; il Bestiario che esce dalla roulotte, pieno di cinghiali; il 3-0 del Bologna (l'ho già detto?) e Di Vaio capocannoniere (questo non l'avevo detto, ne sono sicuro); il digitale terrestre: lo odio, ma CALCIO CALCIO CALCIO CALCIO CALCIO; gli spaghetti western; Palermo (tornerò); Lu e Mick ed il mio biglietto aereo; Beppe Grillo (povero forsennato populista); Van Morrison (grazie Mat).

giovedì 5 marzo 2009

I pensieri del mattino:

Shel Shapiro ed i suoi Rokes; le dirette del Bologna F.C. 1909 la domenica (grazie Alice); Alice?; John Wells (G.M.V.) in "Per un pugno di dollari"; la matita copiativa; disapprovazione; Santa Cunegonda che era l'altro ieri (e perciò esiste davvero); crisi? quale crisi?

mercoledì 4 marzo 2009

Mal visto mal detto

«Riesaminata al riparo dalla luce la bocca si modifica. Inspiegabilmente. Quanto alle labbra nulla di cambiato. Identica chiusura. Identico filetto di polpa mal rientrato. Nelle commessure identica insensibile lassezza. Vale a dire che il sorriso se lo è sta sempre lì. Né più né meno. Meno! Eppure non più lo stesso. Nulla di cambiato quanto alla bocca eppure il sorriso non è più lo stesso. Vero che la luce falsa. Quella dell'occaso soprattutto. Quel fiasco. Vero anche che gli occhi or ora puntati sull'invisibile pianeta adesso sono chiusi. Su altri invisibili di cui non è questo il momento. Ecco alla buon'ora la spiegazione. Quello stesso sorriso accertato con gli occhi spalancati una volta chiusi questi non è più quello. Senza che da un'ispezione all'altra la bocca si sia minimamente mossa. Bene. Ma in che senso non più lo stesso? Che cos'ha adesso quel sorriso se lo è che non aveva? O che se aveva non ha più? Basta. Lasciare perdere.»
(S. Beckett)

Il tuo sguardo nel mio - III

Bottoni.

Fermatevi.

Torri nella nebbia.

Luci della città.

Mani bucate.

Defense d'afficher.

"Il veleno nichilista 
che anima il regime"

«Viviamo un momento politico-costituzionale certamente particolare. Questo non è in discussione, sia presso i fautori, sia presso i detrattori del regime attuale. Non sarà fuori luogo precisare che, in questo contesto, la parola regime vale semplicemente a dire - secondo il significato neutro per cui si parla di regime liberale, democratico, autoritario, parlamentare, presidenziale, eccetera - "modo di reggimento politico" e non ha alcun significato valutativo, come ha invece quando ci si chiede, con intenti denigratori espliciti o impliciti, se in Italia c'è "il regime". Ma che tipo di regime? Questa è la domanda davvero interessante.

Alla certezza - viviamo in "un" regime che ha suoi caratteri particolari - non si accompagna però una definizione che dia risposta a quella domanda. Sfugge il carattere fondamentale, il "principio" o (secondo l'immagine di Montesquieu) il ressort, molla o energia spirituale che lo fa vivere secondo la sua essenza. Un concetto semplice, una definizione illuminante, una parola penetrante, sarebbero invece importanti per afferrarne l'intima natura e per prendere posizione.

Le definizioni, per la verità, non mancano, spesso fantasiose e suggestive. Anzi sovrabbondano, a dimostrazione che, forse, nessuna arriva al nocciolo, ma tutte gli girano intorno: autocrazia; signoria moderna; egoarchia; governo padronale o aziendale; dominio mediatico; grande seduzione; regime dell'unto del Signore; populismo o unzione del popolo; videocrazia; plutocrazia, governo demoscopico. Si potrebbe andare avanti. Si noterà che queste espressioni, a parte genericità ed esagerazioni, colgono (se li colgono) aspetti parziali e, soprattutto, sono legate a caratteri e proprietà personali di chi il regime attuale ha incarnato e tuttora incarna.


Ed è una visione riduttiva, come se si trattasse soltanto di un affare di persone; come se, cambiando le persone, potesse cambiare d'un tratto e del tutto la trama della politica. Invece, prassi, mentalità e costumi nuovi si sono introdotti partendo da lontano; sistemi di potere e metodi di governo sono stati istituiti. Un regime non nasce di colpo, va consolidandosi e forse andrà lontano. È un'illusione pensare che ciò che è stato ed è possa poi passare senza lasciare l'orma del suo piede. La questione che ci interroga è quella di cogliere con un concetto essenziale, comprensivo ed esplicativo di ciò che di oggettivo è venuto a stabilizzarsi e a sedimentare nella vita pubblica e che opera e opererà in noi, attorno a noi e, forse, contro di noi. Se, parlando di regime oggi, è inevitabile che il pensiero corra a ciò che si denomina genericamente "berlusconismo", dobbiamo tenere presente che qui non si tratta di vizi o virtù personali ma di una concezione generale del potere che si irraggia più in là.

Colpisce che tutti i tentativi per arrivare a cogliere un'essenza - giusti o sbagliati che siano - si fermino comunque ai mezzi: denaro, televisione, blandizie e minacce, corruzione, seduzione, confusione del pubblico nel privato e viceversa, impunità, sondaggi, eccetera. Ma tutto ciò in vista di quale fine? Proprio il fine dovrebbe essere ciò che qualifica l'essenza di un regime politico, ciò che gli dà senso e ne rende comprensibile la natura. Se non c'è un fine, è puro potere, potere per il potere, tautologia. Ma qui il fine, distinto dai mezzi, è introvabile.

A meno di credere a parole d'ordine tanto generiche da non significare nulla o da poter significare qualunque cosa - libertà, identità nazionale, difesa dell'Occidente, innovazione, sviluppo, o altre cose di questo genere - il fine non si vede affatto, forse perché non c'è. O, più precisamente, il fine c'è ma coincide con i mezzi: è proteggere e potenziare i mezzi. Una constatazione davvero sbalorditiva: un'aberrazione contro-natura, una volta che la politica sia intesa come rapporto tra mezzi e fini, rapporto necessario affinché il governo delle società sia dotato di senso e il potere e la sua pretesa d'essere riconosciuto come legittimo possano giustificarsi su qualcosa di diverso dallo stesso puro potere.

A parte forse l'autore della massima "il potere logora chi non ce l'ha", nessuno, nemmeno il Principe machiavelliano, ha mai attribuito al potere un valore in sé e per sé stesso. "Il fine giustifica i mezzi" è uno dei motti del machiavellismo politico; ma che succede se "i mezzi giustificano i mezzi"? È la crisi della ragion politica, o della politica tout court. È il trionfo della "ragione strumentale" nella politica.

Siamo di fronte a qualcosa di incomprensibile, inafferrabile, incontrollabile, qualcosa all'occorrenza capace di tutto, come in effetti vediamo accadere sotto i nostri occhi: un giorno dialogo, un altro scomuniche; un giorno benevolenza, un altro minacce; un giorno legalità, un altro illegalità; ciò che è detto un giorno è contraddetto il giorno dopo. La coerenza non riguarda i fini ma i mezzi, cioè i mezzi come fini: si tratta di operare, non importa come e con quale coerenza, allo scopo di incrementare risorse, influenza, consenso.

Il politico adatto a questa corruzione della vita pubblica è l'uomo senza passato e senza radici, che sa spiegare le vele al vento del momento; oppure l'uomo che crede di avere un passato da dimenticare, anzi da rinnegare, per presentarsi anch'egli come uomo nuovo. È colui che proclama la fine delle distinzioni che obbligherebbero a stare o di qua o di là.

Così, si può fingere di essere contemporaneamente di destra e di sinistra o di stare in un "centro" senza contorni; si può avere un'idea, ma anche un'altra contraria; ci si può presentare come imprenditori e operai; si può essere atei o agnostici ma dire che, comunque, "si è alla ricerca"; si può dare esempio pubblico della più ampia libertà nei rapporti sessuali e farsi paladini della famiglia fondata sul santo matrimonio; si può essere amico del nemico del proprio amico, eccetera, eccetera. Insomma: il "politico" di successo, in questo regime, è il profittatore, è l'uomo "di circostanza" in ogni senso dell'espressione, è colui che "crede" in tutto e nel suo contrario.

Questo tipo di politico conosce un solo criterio di legittimità del suo potere, lo stare a galla ed espandere la sua influenza. Il suo fallimento non sta nella mancata realizzazione di un qualche progetto politico. Se egli vive di potere che cresce, anche una piccola battuta d'arresto può essere l'inizio della sua fine. Non sarà più creduto. Per questo ogni indecisione, obbiettivo mancato o fallimento deve essere nascosto o mascherato e propagandato come un successo.

La corruzione e la mistificazione della dura realtà dei fatti e della loro verità è nell'essenza di questo regime. Il rapporto col mondo esterno corre il rischio di essere "disturbato". L'uomo di potere, di questo tipo di potere, non vede di fronte a sé alcuna natura esterna, poiché diventa ai suoi occhi egli stesso natura (naturalmente, lo si sarà compreso, si sta parlando di "tipo ideale", cioè di un modello che, nella sua perfezione, esiste solo in teoria).

Abbiamo iniziato queste considerazioni col proposito di cercare una definizione che, in una parola, condensi tutto questo. L'abbiamo trovata? Forse sì. Non ci voleva tanto: nichilismo, inteso come trasformazione dei fatti e delle idee in nulla, scetticismo circa tutto ciò che supera l'ambito (sia esso pure un ambito smisurato) del proprio interesse. Chi conosce la storia di questo concetto sa di quale veleno, potenzialmente totalitario, esso abbia mostrato d'essere intriso. Ciò che, invece, si fa fatica a comprendere è come chi tuona tutti i giorni contro il famigerato "relativismo" non abbia nessun ritegno, addirittura, a tendergli la mano.»

(G. Zagrebelsky)

lunedì 2 marzo 2009

Parigi.

«24 febbraio, 6:50
Mardi Gras. Verso Parigi, via Rovato.
Venezia-Milano.
Il caldo sbagliato del treno.
Non avrei mai pensato di provare tenerezza per delle statistiche. Mi succede osservando, anzi sbirciando una pagina dello sport de “la Repubblica”, che prepara alla Champions League. Una bandierina inglese, accanto ad una piccola scritta (che non riesco a leggere) mi fa pensare a Manchester, Arsenal e Chelsea.
Mi succede, dicevo, pensando a chi compila quelle statistiche, a chi le ricerca, allo spirito (certamente frutto del mio immaginario) di chi le propone.
Ti racconterei anche questo.

25 febbraio, 13:28
L’impressione è che Parigi sia formale nella sua grandiosità.
O forse io sono predisposto ad altri particolari; e in effetti ne colgo pochi. Abbiamo altri sguardi, per altri luoghi.
Seduti ai tavolini, altri italiani hanno altri entusiasmi e altre priorità; telefonano a casa: “ci dobbiamo tornare”, e si felicitano per il funzionamento delle carte di credito. In fondo non sono cattivi; neppure in superficie.
Mi dà un umore strano, Parigi, si lega poco, resta sullo sfondo.
Non so se sia ritrosia.

27 febbraio, 11:10
Vetri rotti e Oscar Wilde.
Le cornacchie gracchiano e si inseguono battendo le ali tra le pietre delle lapidi. Grigie.
Muschio.
Rumori di strada, di lavori.
Porte sfondate e incisioni nel granito. Tra Bugatti e Gobetti, mi lascio trasportare dal selciato. Con affetto, signora Piaf.
I baci sul marmo orrendo di Oscar Wilde. La signora avrà voluto davvero regalargli questo capolavoro del kitsch? Non lo so. Diffido delle azioni umane, quando sono guidate dal senso di appartenenza alla specie. Geloso.
Questo rumore: non possono essere cicale.
Un’ambulanza in sottofondo.
La prima primavera, uggiosa, gioca e fa lo slalom tra i rami ancora secchi.
I cipressi.
A volte bisogna stare un po’ soli. Ed è difficile, restare soli.
Non è vero, Monsieur Modiglianì?
È d’accordo, Monsieur Morrisón?
Persone si affrettano lungo i viali unendo i punti neri della cartina – schiacciandoli.
Il turismo sa essere davvero greve, in un cimitero.
“Cerchi la tomba di Jim Morrisón?” “Dov’è la tomba di Jim Morrisón?” Chi lo sa, sarà in mezzo alle cornacchie.
Passeggio tra le lapidi e vorrei toccarle tutte con le dita. Stare ad ascoltare ciò che potrebbero raccontare. Se non altro, le facce lontane di turisti-jet sui viali.
“Ha per caso visto la tomba di Jim Morrisón?”
Questi cipressi che si muovono appena... fanno ombra persino in una giornata senza sole, come questa.
Uomini d’arte e di scienza; filosofi. Musicisti. Ebrei. Venditori per corrispondenza; dannati. Forzati. Gente libera.
(Anche libera di morire, all’occorrenza.)
E quest’aria rarefatta, nel rumore del silenzio...
Ebbene sì, cercavo la tomba del signor Morrison, signora.
E l’ho pure trovata.
(“Ballata dei camposanti”; Parigi, Père Lachaise)

28 febbraio, 14:41
[...]

1 marzo, 1:48
Andiamo a mangiare dai tunisini. Che effetto. Scenico. Qualche birra, ed il cibo arriva da sé.
Abbondante.
E pure gli sbronzi arrivano. Abbondanti. Uno mi minaccia con una forchetta, da dietro le spalle. Hanno un’aria desolata, sconsolata. Non sono felici, non bevono in allegria. C’è un che di disperato nelle loro risate.
E poi il padrone.

Bello.

Saliti dal metró, incontriamo un gruppo di turisti. Tedeschi? Di mezza età.
Hanno preso del cibo in un qualche posto; è in confezioni di polistirolo giallo.
Non sono smaccati, come certi altri, che strillano nel metró.
Certamente sono esausti, dopo una giornata di corsa per la grande capitale europea. Forse sono spaesati. Sono smarriti?
Mangiano, o aspettano di mangiare, e questo è ciò che si coglie di loro. Arriva, con la sua puntualità, la mia tenerezza.
Per la semplicità, reale o sottesa.
Cosa si aspettavano (dalla loro cena)? Volevano davvero quel polistirolo giallo, o no? E volendolo, come hanno deciso di prenderlo? In quella forma, o altra? Come nel loro paese, o in altro modo?
Questo mi domando, questo penso, e questo è il mio sguardo. È il nostro sguardo, maledizione.
Maledizione.

1 marzo, 7:40
Si accendono le luci. Sul treno.
Poi il motore, o chi per lui.
Osservo una coppia di mezza età alla mia sinistra e penso a te. Lei molto calma (nota: poi si arrabbierà, all’arrivo, per l’ennesimo controllo della polizia; potevamo saperlo?), lui molto sgarbato (nota: ma tollerante con la polizia); lui mangia in modo disgustoso un panino (nota: ne mangerà molti altri, sempre in modo disgustoso), dopo essersi lamentato di come lei l’ha incartato. Sono stato anch’io così? Probabilmente sì. Lo sono ancora? Probabilmente no. Che influenza ha, questo, ora?

Starnutisco.

Sul metró, verso la Gare de Lyon, per un attimo ho avuto la sensazione di aver riacquistato, per un attimo, il mio sguardo. Il nostro. Un negro in abiti eleganti (cappotto grigio scuro su pantaloni neri) stringeva, in perfetto equilibrio, una bottiglia enorme di “Desperados”. Roba da damerini di grandi dimensioni.
Il metró oscillava, e lui pure, e pure la bottiglia oscillava nella sua mano. Senza perdere una sostanziale verticalità. Metà piena, metà riempita di niente. Ogni tanto apriva gli occhi, e nel farlo sorrideva.
Nella carrozza davanti potevo scorgere, attraverso gli oblò, un altro negro in abiti eleganti. Riflesso nel finestrino, s’aggiustava la cravatta. Per un matrimonio? Per la sua bella? Per la mamma?
Chi torna e chi va. Bentornati.
Adesso che le nubi passano tra i fili della linea, credo riposerò un po’.
8:07 arrivano le lacrime.

1 marzo, 15:25
Odore di regionale. La tappezzeria lurida ne è impregnata.
Lui ha una giacchetta a disegno marrone, di lana grossa. I capelli corti crespi e dei baffetti tagliati su una faccia rossa, come di uno che lavora al sole. E le rughe?
Per minuti interminabili, mangia da un sacchetto di plastica. Prima il rumore di plastica; poi il rumore di cibo in bocca, con schiocchi di lingua e flussi salivari. Mangia pollo dalle ossa, e altri pezzi di carne. Dal sacchetto di plastica. Con metodo. Senza tregua.
La carne in quel sacchetto pare non esaurirsi mai. La sua fame, neppure.
Eppure dopo l’ultimo osso di pollo fa una palla del sacchetto e lo spinge nel cestino, alla sua destra.
(Io sono alla sua sinistra, in posizione simmetrica rispetto a lui, non fosse per il mio zaino, posizionato accanto al finestrino.)
Anche le sue mani sono rosse, come la faccia; e sporche come la tappezzeria? Non lo so. Unte dal pollo, dall’altra carne.
Prende un brandello di carta igienica dal tavolino e si pulisce i polpastrelli, poi lo passa sulle labbra. Sui baffi. Ancora sul tavolino. E ora che fa?
Per il momento, niente.
Piatta. Calma piatta.»