«La mia vita mi ha portato in luoghi gradevoli. Non ci sono cento uomini su un milione che abbiano avuto altrettanta fortuna. Eppure, a dispetto d'una così grande fortuna, io sono triste. E sono triste perché c'è con me John Barleycorn. E John Barleycorn è con me perché io son nato in quello che i secoli a venire chiameranno l'oscuro evo della civiltà razionale. John Barleycorn è con me perché durante tutti i giorni inconsapevoli della mia giovinezza John Barleycorn fu disponibile, e mi chiamava e mi invitava a ogni angolo e a ogni strada fra un angolo e l'altro. La pesudo-civiltà nella quale nacqui permetteva dovunque botteghe autorizzate a vendere il veleno dell'anima. Il sistema di vita era organizzato in modo che io (e milioni come me) fossi adescato, attratto, trascinato a queste vendite di veleno. Segui dunque con me uno solo fra i diecimila stati d'animo in cui mi precipitò John Barleycorn. Sto cavalcando nella mia bella fattoria. Ho sotto di me un bellissimo cavallo. L'aria è come un vino. L'uva sulle colline è rossa di fiamma autunnale. Al di là del Monte di Sonoma si levano dal mare bioccoli di nebbia. Il sole pomeridiano arde nel cielo sonnolento. Ho tutto quel che occorre per sentirmi contento di stare al mondo. Sono pieno di sogni e di misteri. Sono tutto sole, e aria, e favilla. Sono vitalizzato, organico. Mi muovo, ho il potere del movimento, comando il movimento della cosa viva che cavalco. Sono posseduto dall'orgoglio di esistere, conosco fiere passioni e ispirazioni. Ho diecimila motivi di sentirmi augusto. Sono re nel regno del senso, e calpesto il volto della polvere che non si lamenta...
Eppure, con occhio invidioso io guardo tutta la bellezza e la meraviglia che mi circonda, e con mente invidiosa considero la pietosa figura che io sono in questo mondo, che tanto a lungo mi ha sopportato e che continuerà anche senza di me. Rammento gli uomini che si ruppero il cuore e la schiena su questa terra ostinata che oramai mi appartiene. Come se una cosa imperitura potesse appartenere al perituro! Gli uomini sono passati. Anch'io passerò. Questi uomini faticarono, disboscarono e piantarono e guardarono con occhi doloranti, mentre riposavano i corpi induriti dal lavoro in questi stessi tramonti, in queste albe, allo splendore autunnale dell'uva, ai bioccoli di nebbia che sorgono dietro la montagna. E sono andati. E io so che anch'io, un giorno, presto, sarò andato.
Andato? Sto già andando. Nella mia mandibola sono quegli abili artifizi dei dentisti, a sostituire parti di me già andate. Mai più riavrò i pollici della mia gioventù. Vecchie risse, vecchie lotte li hanno danneggiati, irreparabilmente. Il pugno in testa a quell'uomo di cui ho scordato il nome mi ha sistemato questo pollice, per sempre. Una brutta presa di lotta libera ha guastato l'altro. Il mio ventre asciutto di corridore è passato nel limbo della memoria. Le giunture delle gambe che mi sostengono non sono più quelle di un tempo, quando, nelle notti e nei giorni scatenati di fatica e di baldoria, io le volli tendere, stirare, rompere. Non potrò mai più tirarmi su in alto e affidare tutta quanta l'orgogliosa mia destrezza a una fune in mezzo alla tempesta buia. Non potrò mai più correre insieme ai cani da slitta lungo le miglia interminabili della pista artica.
So benissimo che dentro questo corpo in disintegrazione, un corpo che sta morendo dal giorno in cui nacqui, io porto uno scheletro, che, sotto il fasciame di carne chiamato il mio volto, c'è una testa di morto ossuta e senza naso. Ma tutto questo non mi fa tremare. Aver paura significa essere sani. La paura della morte dà motivo di vita. Ma è la maledizione della Logica Bianca quella che ti fa non essere pauroso. La malattia cosmica della Logica Bianca ti fa ghignare giocosamente in faccia a quella che non ha naso, e ti fa irridere tutte le fantasmagorie della vita.»
(J. London, "John Barleycorn", trad. L. Bianciardi)
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