In principio fu Pomigliano. Il patto scellerato tra l’amministratore delegato della FIAT, Sergio Marchionne, ed i segretari di CISL e UIL, Bonanni e Angeletti, è stato spacciato, qualche mese fa, come una svolta epocale in senso positivo. Alcuni illuminati, come l’allora Ministro del Welfare Sacconi, salutarono l’accordo capestro con entusiasmo: «oggi il Paese è più moderno», diceva il ministro; «il Lingotto non può che riconoscere che vi sono tutte le condizioni per realizzare il promesso investimento in un contesto di pace sociale».
La pace sociale, sì. “Ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra”, cantava Pietrangeli quand’era ancora in sé.
E la guerra, con i bastoni contro i cannoni, aveva provato a farla la Fiom, abbandonata, irrisa e provocata sull’unità sindacale.
Il fatto è che l’accordo, di per sé (dal mio punto di vista) penalizzante e molto vincolante per i lavoratori (che sono gli operai dei 1000 euro al mese, in questo caso, e non i manager che fanno i democratici mettendo il maglioncino al posto della giacca), metteva contestualmente i sindacati in una posizione di inferiorità, rispetto al padrone, ancora superiore (se possibile) rispetto alla precedente. E creava un pericoloso precedente.
La disdetta è di una gravità inaudita: l’Italia operaia dell’immediato dopoguerra avrebbe affrontato il padrone sul ring, e probabilmente gliele avrebbe pure suonate. Oggi, invece assistiamo allo spettacolo malinconico di operai frustrati, terrorizzati e sotto scacco, che neppure riescono a ritrovare un’anima nella coesione di categoria; e a quello triste di due sigle sindacali (CISL e UIL) che non sono capaci di dire “scusateci, siamo proprio stati coglioni”.
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