lunedì 9 luglio 2012

Lettere da Sapporo #2

[Manterrò l’ora italiana, per trovare conforto nelle radici.]
Sapporo, Giappone. Dopo trenta e più ore di viaggio, la spossatezza amplifica la malinconia che si era impadronita di me già a Berlino, al momento dei saluti.
È bello viaggiare. più bello è avere delle radici.
Solo nella stanza, dopo aver provato il takoyaki, respingo il nodo e mi preparo a riposare, sperando che il riposo serva al mio umore maltrattato.

Lettere da Sapporo #1

Il primo incontro con il Giappone è tragico. Il viaggio verso Sapporo, infatti, si dimostra infernale.
Matteo ed io lasciamo l’ostello a Berlino alle 7.30, per essere in aeroporto in tempo per la mia partenza, alle 10.10. Strana sensazione, il saluto è commovente per entrambi: anche se siamo stati un anno senza quasi vederci e lui tra un mese tornerà.
Arrivo a Francoforte e vengo imbarcato sul volo per Tokyo, previsto per le 13.50; ma l’Airbus A380 ha problemi con il sistema elettrico e non parte. Un gigante ferito e ostinato. Solo alle 17.00 decidono di predisporre un altro velivolo, sul quale ci imbarcano alle 19.00. Partiremo alle 20.00.
Di conseguenza arrivo a Tokyo alle 13.15, ora locale (le 6.15 in Italia). Passo una tonnellata di controlli doganali e di sicurezza (come negli Stati Uniti: paranoia comune alle potenze industriali) e riesco finalmente a entrare nell’area destinata ai trasferimenti interni. Chiedo informazioni circa il desk Lufthansa e vengo dirottato sul banco check-in della ANA, la compagnia interna convenzionata coi tedeschi. Dapprima, la signorina con cui parlo, informatasi presso il loro agente, mi dice che è necessario attendere l’agente Lufthansa. Mi suggerisce di aspettare il suo arrivo. Dopo qualche minuto ci penso e su e torno al banco per chiedere di indicarmi dove sia il desk Lufthansa, per andare direttamente da loro. La signorina con cui parlo, diversa dalla precedente, mi dice che non c’è un desk Lufthansa, ma si propone di farmi il biglietto. Cosa che effettivamente fa.
Prelevo 20.000 ¥ (pari a circa 200 €) e mi reco all’ennesimo controllo di sicurezza, attraverso il quale accedo all’area di imbarco dei voli interni. A questo punto maleodoro come raramente mi è accaduto in vita mia. Chiamo il mio ospite giapponese, che purtroppo non ha letto l’e-mail di ieri (con la quale cercavo di avvertirlo del mio ritardo) e si era già informato presso la Lufthansa, la quale gli aveva comunicato che avrei preso un volo (secondo le loro previsioni) domattina. Gli dico che ho già il biglietto ANA in mano e che arriverò a Sapporo alle 20.00. Lui mi spiega che dovrò prendere il treno fino alla stazione e poi un taxi fino all’hotel. Poi mi richiama e mi propone di venirmi a prendere; mi spiega però che il suo hotel è vicino alla stazione, mentre il mio è a 20 min di macchina, e che quindi dovremo metterci d’accordo per bene per domattina (quando, ragionevolmente, dovremo partire dalla stazione).
Niente male, come inizio.

sabato 7 luglio 2012

Berlino, ancora qui, dopo poco più di un mese.
«Città assurda, città strana»... Di sole e pioggia, in questi giorni: un'occasione (rimandata) per vedere un concerto, un'occasione (colta) per passare del tempo con mio fratello, un'occasione (subita) per la nostalgia.
E domani si parte, di nuovo; da solo. Non mi va, ma così va. E così si va.

martedì 19 giugno 2012

Ho appena spiegato a Rusty che "Cane di paglia", in estrema sintesi, è un film su uno a cui, ad un certo punto, girano i coglioni.

domenica 10 giugno 2012


Questa volta è andata così. Arrivederci alla prossima, Boss!

venerdì 1 giugno 2012

Prima lionese.

Centinaia di finestre per ogni palazzo, Lione, ed ogni palazzo centinaia di numeri civici e, dove possibile, un nome.

mercoledì 23 maggio 2012

Verso Berlino.


Ho sempre sostenuto che quello tedesco è un popolo incredibile.
E poco importa se lungo il cammino di avvicinamento a Berlino si incontrano per lo più italiani, con le loro solite magagne (comici populisti compresi).
Verona-Monaco. Non ero mai stato a Monaco passando per l’aeroporto: così vicino a Trento, buono solo per scali, magari internazionali. Una cartolina da lì: ci scaricano dall’Air Dolomiti con il solito pullman da passeggio; una coppia teutonica di mezza età ne redarguisce il conducente, reo — a insindacabile avviso — di aver telefonato mentre guidava. La risposta del pilota, brandendo l’auricolare, è: “Was ist das?”. Incompreso dalla lingua, perdo probabilmente le parti più gustose del bisticcio; capace comunque di farmi sorridere una volta di più al maniacale (nel bene e nel male) senso civico del popolo germanico.
Sull’aereo per Berlino siedo accanto al finestrino, o meglio accanto all’ala, o meglio ancora accanto ad una coppia di italiani (lui romano, lei partenopea). Ne ricostruisco una fantasiosa ma verosimile storia. Sono amanti: è evidente da come si baciano adolescenzialmente la mano, da come la lasciano scivolare goffamente sulle reciproche ginocchia. Sbircio fedi, intravedo solo ombre chiare sull’anulare. Lui è sull’aereo per la mia stessa ragione, lei forse. Forse, perché potrebbe semplicemente accompagnare lui in questa scappatella di lavoro. Lui passa il tempo a raccontarle di episodi della sua storia, dall’infanzia alla gavetta in ospedale al suo potere, moderatamente considerevole, oggi. È molto sicuro e racconta per il piacere di farlo. Lei è ammaliata, ma sa ascoltare così e così.
Arriviamo a Berlino che il sole scende rosso all’orizzonte. «Guarda il tramonto! Guarda che colori incredibili!», esclama lei, mentre io guardo quel rossore riflettersi sui vetri grigioblu di un hangar che sembra un palazzo della finanza. È il pudore del sole, che imbarazzato nemmeno osa guardarsi. Poco più in là ammicca placido un aeromobile arrugginito con la scaletta abbassata, forse gioco di bimbi, forse museo abbandonato.
Ci fermiamo, e un signore con una allampanata spazzola brizzolata, anziché dare una sistemata al colletto ritorto della sua giacca sintetica, apre il portatile e controlla la posta elettronica. Imbarazzati, sole, ne hai ben donde.
Villa Kastania gode fortunata del verde permeante di Charlottenburg. Ost-Berlin. Ci arrivo in taxi, manco fossi a New York. Entro. Parlamento con la receptionist. Stanza 19: una suite. Salotto, bagno da ballo, stanza; l’aria condizionata mi accarezza i capelli, le poltrone bianche stanno ritte come gendarmi. Esco. Passeggio verso destra. Poi verso sinistra. Incontro Adelino, ristorante italiano, il capofila di una orgogliosa colonna che va e va fino a Theodor-Heuss-Platz. Sul fianco di Adelino vendono pinot grigio: lo prendo come un segno del destino, torno a Kastania — appena in tempo per apprendere che il ristorante è chiuso. La steakhouse in piazza, per fortuna, no; e neppure i macellai e i birrifici, grazie a dio.
Il filet mignon è perfetto e si accompagna alla perfezione al pane abbrustolito, alla patata lessata e alla sacrosanta doccia che mi aspetta in stanza.
Prima di coricarmi scopro anche dell’esistenza di un terrazzo abnorme al quale posso accedere direttamente dai miei appartamenti. Scemo io: questa è una suite, mica un loft. Annuso l’ultima boccata di trenta gradi, mitigata dalle tenebre, e scendo negli abissi di enormi cuscini prussiani.