Ho sempre sostenuto che quello tedesco è un popolo incredibile.
E poco importa se lungo il cammino di avvicinamento a Berlino si incontrano per lo più italiani, con le loro solite magagne (comici populisti compresi).
Verona-Monaco. Non ero mai stato a Monaco passando per l’aeroporto: così vicino a Trento, buono solo per scali, magari internazionali. Una cartolina da lì: ci scaricano dall’Air Dolomiti con il solito pullman da passeggio; una coppia teutonica di mezza età ne redarguisce il conducente, reo — a insindacabile avviso — di aver telefonato mentre guidava. La risposta del pilota, brandendo l’auricolare, è: “Was ist das?”. Incompreso dalla lingua, perdo probabilmente le parti più gustose del bisticcio; capace comunque di farmi sorridere una volta di più al maniacale (nel bene e nel male) senso civico del popolo germanico.
Sull’aereo per Berlino siedo accanto al finestrino, o meglio accanto all’ala, o meglio ancora accanto ad una coppia di italiani (lui romano, lei partenopea). Ne ricostruisco una fantasiosa ma verosimile storia. Sono amanti: è evidente da come si baciano adolescenzialmente la mano, da come la lasciano scivolare goffamente sulle reciproche ginocchia. Sbircio fedi, intravedo solo ombre chiare sull’anulare. Lui è sull’aereo per la mia stessa ragione, lei forse. Forse, perché potrebbe semplicemente accompagnare lui in questa scappatella di lavoro. Lui passa il tempo a raccontarle di episodi della sua storia, dall’infanzia alla gavetta in ospedale al suo potere, moderatamente considerevole, oggi. È molto sicuro e racconta per il piacere di farlo. Lei è ammaliata, ma sa ascoltare così e così.
Arriviamo a Berlino che il sole scende rosso all’orizzonte. «Guarda il tramonto! Guarda che colori incredibili!», esclama lei, mentre io guardo quel rossore riflettersi sui vetri grigioblu di un hangar che sembra un palazzo della finanza. È il pudore del sole, che imbarazzato nemmeno osa guardarsi. Poco più in là ammicca placido un aeromobile arrugginito con la scaletta abbassata, forse gioco di bimbi, forse museo abbandonato.
Ci fermiamo, e un signore con una allampanata spazzola brizzolata, anziché dare una sistemata al colletto ritorto della sua giacca sintetica, apre il portatile e controlla la posta elettronica. Imbarazzati, sole, ne hai ben donde.
Villa Kastania gode fortunata del verde permeante di Charlottenburg. Ost-Berlin. Ci arrivo in taxi, manco fossi a New York. Entro. Parlamento con la receptionist. Stanza 19: una suite. Salotto, bagno da ballo, stanza; l’aria condizionata mi accarezza i capelli, le poltrone bianche stanno ritte come gendarmi. Esco. Passeggio verso destra. Poi verso sinistra. Incontro Adelino, ristorante italiano, il capofila di una orgogliosa colonna che va e va fino a Theodor-Heuss-Platz. Sul fianco di Adelino vendono pinot grigio: lo prendo come un segno del destino, torno a Kastania — appena in tempo per apprendere che il ristorante è chiuso. La steakhouse in piazza, per fortuna, no; e neppure i macellai e i birrifici, grazie a dio.
Il filet mignon è perfetto e si accompagna alla perfezione al pane abbrustolito, alla patata lessata e alla sacrosanta doccia che mi aspetta in stanza.
Prima di coricarmi scopro anche dell’esistenza di un terrazzo abnorme al quale posso accedere direttamente dai miei appartamenti. Scemo io: questa è una suite, mica un loft. Annuso l’ultima boccata di trenta gradi, mitigata dalle tenebre, e scendo negli abissi di enormi cuscini prussiani.