giovedì 26 luglio 2012

lunedì 16 luglio 2012

«È solo il capobanda, ma sembra un faraone.
Ha gli occhi dello schiavo e lo sguardo del padrone...»

venerdì 13 luglio 2012

Lettere da Sapporo #6

Tokyo come Times Square moltiplicata molte volte per se stessa (e solo per se stessa).
La tradizione ha fatto un lungo percorso, per cancellarsi, e per permettere ai turisti di tirare il soldino, agitare il cassettino, interrogare la fortuna ("tutto andrà bene, prima o poi").
I ristoranti chiudono alle 22.00, sicché la mia gita sbagliata (sono finito a Shinjuku anziché ad Harajuku, e sulla strada del ritorno mi sono perso), terminata alle 21.50, ha causato un piccolo incidente diplomatico con il capo: lui dormiva, mentre io lottavo con la mappa (mentale, ché fisica non c'era), ma ovviamente qualsiasi colpa del disguido era facilmente attribuibile al sottoscritto (e solo al sottoscritto). In una messa bassa di sfoghi soffocati, una specie di recriminatio interrupta.
Considerazione del giorno: chi legge i libri sbagliati, sbaglia; chi non legge, sbaglia di più; chi non legge e ne avrebbe bisogno, sbaglia a maggior ragione.


Chiudo le comunicazioni, domani si torna a casa.

giovedì 12 luglio 2012

Lettere da Sapporo #5

Un successo? È stato quello che si può definire un successo. Sperato? Abbastanza. Acciuffato.
Il capo ha fatto in tempo a reclamarne la paternità morale (quella fisica sta ancora a Francoforte): non ammetterà a sé, né ad alcun altro. Tuttavia ho fatto un bel lavoro, accidenti.
Da esserne felici.
E infatti ne sono felice.
Detto questo: pranzo lussuoso a base di tonkatsu e riso amidosissimo (in sottofondo, su maxischermo, “Io ballo da sola”, italiano, sottotitoli in inglese). Cena eclatante, a base prevalentemente di sashimi, ma anche di yakitori. Stasera ho avuto modo pure di assaggiare del sake: non quello pestilenzialmente alcolico dei locali italiani (roba cheaper, dice Osawa san), ma quello da signori di campagna. Al primo bicchiere, colmo fino all’orlo, i miei ospiti erano divertiti. Al secondo stupiti fino ad applaudirmi (soprattutto Taguchi san, la mia nemesi lavorativa). Al terzo ammirati.
Ci hanno seguiti in macchina, fino alla stazione, per salutarci. Inchini e tante, tantissime foto; poi ancora le mani agitate mentre già eravamo oltre il vetro, quasi sui binari.
Giapponesi, brava gente.
Comincio ad ambientarmi. Mi trovo a mio agio tra modi troppo cortesi, imbarazzi mascherati e curiosità manifesta: affronto la cosa con disinvoltura. Non dico che ci comportiamo tutti nello stesso modo; anzi. «Siamo cattivi e buoni, siamo vigliacchi e fieri, saggi, falsi, sinceri: coglioni». Ma in fondo, proprio in fondo, a volerci veder bene, siamo tutti uguali — ontologicamente — nelle pretese e nella disponibilità. Pure chi insiste nello scoreggiare a culo nudo: due, cinque, dieci volte. Anche se, e questo è pure vero, non sa cosa si perde.

mercoledì 11 luglio 2012

Lettere da Sapporo #4


«C’è una folla che guarda, in un tremendo silenzio. L’uomo in tuta contempla l’effetto dei colpi. È scuro in volto, non mostra nemmeno soddisfazione. Aspetta e basta. Aspetta che il prepotente esca.
Ma il prepotente non esce, se la fa sotto. Allora Cipputi si avvicina al finestrino e guardando dentro scandisce con voci baritonale: “Ti sono piaciuto?”. È quello il vero colpo da maestro:...»
Grazie mille, maestro Rumiz; e grazie mille, maestro operaio che non ne può proprio più.
La mia giornata finisce così: leggendo delle gesta eroiche di un ignoto operaio narrate dalla penna deliziosa di un delizioso girovago.
È iniziata, pure oggi, la giornata, alle 6.30. Ed è stata lavoro duro, molto duro, sotto i cazzotti del jet leg e di un pranzo prepotente. (Da registrare l’ilarità scatenata dal sottoscritto quando ha definito “spicy” una zuppetta di soia, scalogno (o simile), wasabi e chissà cos’altro.
Oggi è arrivato pure il capo, che però noi tre (Osawa san, Kawahara san ed il sottoscritto) abbiamo raggiunto solo in serata. Ha colto, il capo, l’eterea complicità tra stranieri creatasi fra di noi dopo giorni spalla a spalla, la comprensione in due inglesi-non-inglesi; e ha faticato ad affrontarla, lì per lì. Chiacchiere in italiano, nonostante il mio sforzo, sempre meno efficace, di coinvolgere i nostri gentilissimi ospiti.
Infine il suo, di colpo da maestro. Durante una cena ancora una volta indimenticabile (una sorta di raclette alla giapponese, con tanto di germogli di soia piastrati).
«Ho letto che soffiarsi il naso in pubblico, in Giappone, è come scoreggiare», ricordavo ad amici, parenti e colleghi prima di partire.
Ed eccolo lì, il capo, maestoso, estrarre il fazzoletto.
Silenzio. Mio, divertito e incredulo. Loro, avvertito dell’imminente pericolo.
Una strombazzata lunga, ripetuta, straordinariamente insistita, complice della sua inopportunità, fiera di sbagliare, gagliardamente senza fine. Una scoreggia a culo nudo, sopra i piatti dei convitati sempre più pallidi, sempre più muti.
«Tutti aspettano che accada qualcosa. E difatti accade». Ecco, e lo fa così.

«Tutti aspettano che accada qualcosa. E difatti accade». Ecco, e lo fa così.

martedì 10 luglio 2012

Lettere da Sapporo #3

Il martedì ha altri colori. Mi sveglio pimpante — per quanto possibile — alle 6.30, faccio ginnastica, infilo la camicia e scendo per la colazione. Ricco buffet; mi permetto addirittura l’eccesso di un salmone marinato, che infatti avanzo colpevolmente.
I tassisti di Sapporo hanno guanti bianchi. Ho appreso solo ieri che in Giappone il volante è sulla destra; l’autista pare non accorgersene e m porta misterioso e incomprensibile al mio appuntamento. Davanti al Daimaru Market mi aspetta Osawa san. Il tempo di un paio di foto. «Luca san?», chiede all’unico occidentale nei paraggi. Eccomi qui; raccattiamo Kawahara san e prendiamo il treno per la nostra comune destinazione, dove ci preleva una macchina, come in un film.
E poi al lavoro, sodo: una riunione nella quale l’unico interprete, tra inglese e giapponese, è Osawa san; le ore in produzione, a sporcarsi le mani e la testa. Durante una pausa mi spiegano che poco distante c’è un parco nel quale sono esposte (o più che altro tumulate) alcune sculture di marmo italiano. Mi ci portano: è vero.
Andiamo a pranzo, in una specie di bar colorato e riempito del fumo di signori di mezza età. Spaghetti (noodles) e ritorno al lavoro.
Sodo, ancora. Ma emozionante. Così come le pause: a metà pomeriggio un paffuto operaio mi mostra la sua mini-moto. Sembra una di quelle con le quali gareggiava Rossi da ragazzino; ed è forse il futuro di Biaggi. Gli spiego che ho una moto Guzzi, una V7 Classic, gliela mostro in foto. Pare soddisfatto. Mi fa dire da Osawa che anche un suo amico ha una Guzzi e che gli piace il rumore che fa. Più della Ducati. Non lo dire a me, amico. Mi propone di provare la sua; faccio un giro in cortile — poi è la volta di Osawa san, che non posso non immortalare.
Sulla via del ritorno, dopo più di dieci ore a’llavorare, incontriamo in stazione delle collegiali in stile manga. Camicia bianca, gilet di lana blu, gonna a losanghe verdone, calze blu al ginocchio (con piccoli fregi: un gattino, o cose simili), scarpette laccate, zaino indossato lungo e borsetta. Mi guardano come se fossi appena sceso dal tappeto rosso di un’astronave marziana.
Ridacchiano.

Sorrido.

Prendiamo il treno e torniamo a Sapporo, giusto in tempo per partecipare colpevolmente ad una cena straordinariamente ricca — e clamorosamente offertami —. Il pezzo forte è il granchio: grosso così, bello così, buono. Così. «Sembra che non sappia perché è qui», dico a Osawa san mentre lo guardiamo sguazzare lento fra i suoi simili. «Ma noi lo sappiamo bene». Granchio, certo, e sashimi vario, tempura, udon, cervello di calamaro, alghe. A ciascun piatto la sua salsetta.
Chiamo Chiara e la bombardo di informazioni. Ieri sera quasi piangevo, oggi rido. Non vedo comunque l’ora di tornare a casa. Provo poi a passeggiare verso l’hotel, ma il navigatore si perde, ed io con lui. Taxi! A tutta birra tra le luci luccicanti.

lunedì 9 luglio 2012

Lettere da Sapporo #2

[Manterrò l’ora italiana, per trovare conforto nelle radici.]
Sapporo, Giappone. Dopo trenta e più ore di viaggio, la spossatezza amplifica la malinconia che si era impadronita di me già a Berlino, al momento dei saluti.
È bello viaggiare. più bello è avere delle radici.
Solo nella stanza, dopo aver provato il takoyaki, respingo il nodo e mi preparo a riposare, sperando che il riposo serva al mio umore maltrattato.

Lettere da Sapporo #1

Il primo incontro con il Giappone è tragico. Il viaggio verso Sapporo, infatti, si dimostra infernale.
Matteo ed io lasciamo l’ostello a Berlino alle 7.30, per essere in aeroporto in tempo per la mia partenza, alle 10.10. Strana sensazione, il saluto è commovente per entrambi: anche se siamo stati un anno senza quasi vederci e lui tra un mese tornerà.
Arrivo a Francoforte e vengo imbarcato sul volo per Tokyo, previsto per le 13.50; ma l’Airbus A380 ha problemi con il sistema elettrico e non parte. Un gigante ferito e ostinato. Solo alle 17.00 decidono di predisporre un altro velivolo, sul quale ci imbarcano alle 19.00. Partiremo alle 20.00.
Di conseguenza arrivo a Tokyo alle 13.15, ora locale (le 6.15 in Italia). Passo una tonnellata di controlli doganali e di sicurezza (come negli Stati Uniti: paranoia comune alle potenze industriali) e riesco finalmente a entrare nell’area destinata ai trasferimenti interni. Chiedo informazioni circa il desk Lufthansa e vengo dirottato sul banco check-in della ANA, la compagnia interna convenzionata coi tedeschi. Dapprima, la signorina con cui parlo, informatasi presso il loro agente, mi dice che è necessario attendere l’agente Lufthansa. Mi suggerisce di aspettare il suo arrivo. Dopo qualche minuto ci penso e su e torno al banco per chiedere di indicarmi dove sia il desk Lufthansa, per andare direttamente da loro. La signorina con cui parlo, diversa dalla precedente, mi dice che non c’è un desk Lufthansa, ma si propone di farmi il biglietto. Cosa che effettivamente fa.
Prelevo 20.000 ¥ (pari a circa 200 €) e mi reco all’ennesimo controllo di sicurezza, attraverso il quale accedo all’area di imbarco dei voli interni. A questo punto maleodoro come raramente mi è accaduto in vita mia. Chiamo il mio ospite giapponese, che purtroppo non ha letto l’e-mail di ieri (con la quale cercavo di avvertirlo del mio ritardo) e si era già informato presso la Lufthansa, la quale gli aveva comunicato che avrei preso un volo (secondo le loro previsioni) domattina. Gli dico che ho già il biglietto ANA in mano e che arriverò a Sapporo alle 20.00. Lui mi spiega che dovrò prendere il treno fino alla stazione e poi un taxi fino all’hotel. Poi mi richiama e mi propone di venirmi a prendere; mi spiega però che il suo hotel è vicino alla stazione, mentre il mio è a 20 min di macchina, e che quindi dovremo metterci d’accordo per bene per domattina (quando, ragionevolmente, dovremo partire dalla stazione).
Niente male, come inizio.

sabato 7 luglio 2012

Berlino, ancora qui, dopo poco più di un mese.
«Città assurda, città strana»... Di sole e pioggia, in questi giorni: un'occasione (rimandata) per vedere un concerto, un'occasione (colta) per passare del tempo con mio fratello, un'occasione (subita) per la nostalgia.
E domani si parte, di nuovo; da solo. Non mi va, ma così va. E così si va.