mercoledì 15 giugno 2011

Storie di ordinaria follia #2.

Riporto, cercando di mantenerle nell’opportuno anonimato, due storie che mi sono state recentemente raccontate.

La prima è la vicenda di E., impiegata in un call center della Vodafone. Non esattamente la realizzazione di un sogno, per una che ha fatto il liceo classico ed si è poi laureata. Se non altro, però, la gavetta rende: dopo anni passati con la cuffia in testa, E. ottiene infatti una promozione e inizia a coordinare un team di lavoro. Capita per caso che, assunto da poco il nuovo ruolo, è indetto uno sciopero. E., come molti altri, aderisce, convinta che le sue condizioni di lavoro possano e debbano migliorare. Detto, fatto: i suoi capi le spiegano che, scioperando (ovvero esercitando un proprio diritto e rinunciando, per questo, alla miseria dello stipendio giornaliero) li ha “molto delusi”, e la rimandano a rispondere alle telefonate.

La seconda è la storia di S., che è sposata ed ha un bimba piccola. Suo marito lavora in un centro di ricerca. La ricerca che fa lei, invece, è di lavoro: per tornarci, al lavoro, dopo la gravidanza. Durante un colloquio, le viene proposto di firmare un contratto e, contestualmente, la lettera di licenziamento. Giusto per alleggerire un po’ la burocrazia, quando decideranno di cacciarla via (magari al prossimo bimbo). Lei accetta, prima di tutto perché ha bisogno di lavorare, e poi perché sa che, se non l’avesse fatto lei, sarebbe toccato al prossimo della lista: chiudere gli occhi e firmare.

Queste sono due storie di donne. Di giovani laureate. Di lavoro non giusto. Di scarsa soddisfazione. Di ricatti. Di mobbing preventivo. Di frustrazione. Di umiliazione. Di dignità violata.

E. ha il dovere, non solo il diritto, di lottare contro padroni fuorilegge. S. ha il dovere, non solo il diritto, di denunciare una pratica che, oltre che disgustosa, è illegale.

Chi lavora per i nuovi padroni, in un clima nel quale le lotte sindacali sembrano cancellate in un colpo, ha una grande responsabilità. La responsabilità di alzare la testa e guardare alla volgarità di questo male con sguardo severo; di essere intransigente nel rispetto di se stesso.

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