sabato 15 maggio 2010

Arrivano i barbari.

La Svizzera è un grande paese democratico fatto di vacche di uranio e banconote di cioccolato al latte.

Un paese che ha fatto della neutralità la sua guerra. Probabilmente perché le pittoresche guardie svizzere hanno un aspetto tutt’altro che bellicoso e non incutono alcun timore, l’alabarda è démodé e quei vezzosi berrettoni cascanti possono infondere sicurezza solo in soggetti già in odore di santità.

Circa sessant’anni fa c’erano pure i miei nonni, in Svizzera. Nora lavorava in un maglificio, come da tradizione familiare, mentre Vittorio era un disegnatore tecnico specializzato. Erano partiti da qui in cerca di fortuna, o forse sull’onda degli eventi, poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.

Non ho grandi ricordi di racconti, da parte loro, sul periodo di là dal confine. Qualche breve accenno, l’espressione dei loro occhi. La maggior parte di ciò che so è di seconda mano e viene da mia madre, che del resto in Svizzera c’è nata.

So che c’erano le serate danzanti, durante una delle quali, peraltro, i miei nonni si sono conosciuti. So che c’erano le gite in bicicletta da Fleurier al lago di Neuchâtel.

Per lo più ricordi di situazioni felici. Forse per l’entusiasmo dei trent’anni, allora; forse per un processo postumo di rimozione. O per la particolare attitudine della mia famiglia, abituata nei secoli a fissare ed estrarre i particolari positivi da eventi tragici.

Resta il fatto che la comunità italiana andata formandosi lassù era isolata: viveva in sé e per sé, senza contatto con il paese che la ospitava. La sua allegria era a cottimo, sudata nelle officine e nelle industrie del padrone svizzero.

Una grande parte degli indigeni non vedeva di buon occhio gli italiani, benché questi provenissero quasi tutti dal nord del paese, e fossero quindi del tutto simili, dal punto di vista fisiognomico, agli indigeni stessi. Erano uguali ma diversi: brutti, sporchi e cattivi. E, nonostante tutto, ballavano.

Uno dei racconti di mia madre riguarda la zia Bice, sorella maggiore di mia nonna, e l’indignato disappunto con il quale reagì quando, al confine, venne fatta spogliare e disinfettata da capo a piedi. Andava, con un visto turistico, a trovare la sorella e il cognato. In vacanza. Lei era una vera signora, figlia di aristocratici che prima della guerra giravano per Milano in carrozza, attorniati da servitori: come poteva accettare di buon grado quella zelante villania?

Nello sguardo degli svizzeri, d’altronde, eravamo davvero tutti uguali. I soliti italiani, da un certo punto di vista. Si sa, il mulo ha un cattivo odore, anche se lavora sodo; e poi tra mulo e cavallo si può pure fare confusione.

Quando nacque mia madre, il personale dell’ospedale disse a mia nonna che avrebbe certamente strillato, perché tutte le donne italiane urlavano come pazze durante il parto. Qualcuno, poi, le disse di non avvicinarsi a mia madre se avesse pianto: quell’eccesso di attenzione, tipico dei genitori italiani, andava evitato: era giusto che il poppante piangesse tutte le sue lacrime.

I racconti personali, nel tempo, si incrociano con le testimonianze pubbliche. Quelle che parlano di classi separate a scuola. Quelle che raccontano del divieto di ingresso in alcuni locali. Quelle che richiamano il dolore della separazione dalle famiglie, cui era impedito di raggiungere i propri cari oltre confine.

Tutto questo mi ricorda qualcosa. Ma nei ricordi poi ogni evento si confonde, e io oggi non riesco a capire se i barbari entrassero in Svizzera belli disinfettati o se in Svizzera, piuttosto, ci stessero già; né so dire se questi barbari si siano estinti trent’anni fa o, al contrario, siano qualche metro più in là, solo un po’ più verdi di bile.

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