giovedì 26 giugno 2008

martedì 24 giugno 2008

Come il vento

Il palco sembra la strada sterrata che porta ad un circo di periferia, ad un ammasso di baracche. Alle spalle degli strumenti, una struttura metallica sostiene lettere luminose fatte di lampadine tonde, come quelle delle insegne di luna park abbandonati. Di lato, una grande ventola, simile ad un gong, fa da sfondo alla statua di un indiano, che richiama alla mente i distributori di sigarette di certi film on the road.
Il palco è ancora vuoto, perché il cielo è ancora illuminato dal sole che se ne va.
In sottofondo un blues; e la gente che comincia a rumoreggiare, perché è passata mezz’ora, e poi quasi un’ora, e “io domani devo andare a lavorare”.
Poi la ventola comincia lentamente a girare. Le luci si spengono; ed anche il sole ha smesso di fare luce. Attesa. Lenta. Poi il movimento, sotto le luci rosse del palco.
Ci siamo.
Signore e signori, Mr. Neil Young. Pantaloni chiari e camicia bianca. Stivali. Imbraccia l’elettrica e inizia, quasi improvvisamente, e non si ferma per venti minuti, violentando la chitarra, straziando il palco, che intanto è spazzato dalla ventola.
E poi tutti sanno che questo posto non esiste.
Un’ora, un’ora di rock, di vero rock, nell’elettricità dell’aria e di quel vento che gli scompiglia i capelli e la voce, dolente. Poi la furia si placa, anche il vento pare calmarsi, ed ecco comparire un’armonica a bocca, ed un organo. La Madre Terra. Di fianco all’indiano appaiono quadri di strade, ossa, polvere e cenere. L’ago ed il danno.
Solo l’occhio del ciclone. Torna il vento e torna l’elettrica, ed il Signor Young ondeggia sulle gambe, allunga il braccio come un capitano, alza e abbassa la chitarra come una scure. È come se si stesse sfongando; è come se si fosse sfogato. Ringrazia, se ne va.
Ritorna. All along the watchtower. Si inginocchia a terra, poi si sdraia, mentre le mani non si fermano più. È commovente e straziante — è il piacere in fondo al dolore.
Il Signor Neil Young strappa tutte le corde della chitarra, e le corde saltano via, e vanno a formare molle e antenne sopra la tastiera. Il Signor Neil Young la abbandona stremata e va via.

lunedì 23 giugno 2008

Vabbè, però non è possibile giocare così.

Un generoso affanculo a chi non mi spiega, a chi non si spiega, a chi lascia intendere, a chi fa finta di niente, a chi non sa bere, a chi beve male, a chi finge nella sua vita che è una finzione, a chi finge nella sua vita che è una minzione, a chi della sua vita triste ha fatto un film, a chi non regge le sue azioni, a chi sparisce. A chi parla a vanvera, a chi si parla addosso, a chi si sente sicuro nelle sue sciocchezze. Alle uscite insinuanti e (in)sinuose di F.B., a cantanti (non ancora) famosi, a cinque minuti di tristezza, a cinque minuti di indecisione, al posto al sole, alle cose tenute all'ombra, agli amici senza coraggio, al coraggio. Alla nazionale che gioca con Luca Toni. All'ultimo bicchiere che non è ancora abbastanza. A chi non chiama, a chi non risponde, a chi pensa assurdità — le rende verità — e poi sparisce. Agli illusionisti dell'hascisc, all'impostura della loro vanità. Alla ricerca monoscopica, alla tristezza di una solitudine giocata da sé, a chi non ha letto tanti libri, a chi ha letto i libri sbagliati, a chi non sa leggere anche se è laureato. Alle foto tristi di gente che se ne va. A chi ti corre di fianco con le cuffie e poi non lo fa più.
Affanculo.
Che brutto mondo di pupazzi.

Alcuni lettori sono grotteschi.
Affanculo, va'.

domenica 15 giugno 2008

Forse in un'ambulanza, certamente qualche veicolo.

«...Perché al giorno francamente non ci tenevo, e quanto a mia madre potevo sperare che lei mi aspettasse ancora, dopo tanto tempo? E la gamba, le gambe. Ma le idee di suicidio facevano poca presa su di me, non so più perché, credevo di saperlo, ma mi accorgo che non è così. L’idea dello strangolamento, in particolare, pur così allettante, l’ho sempre superata, dopo una breve lotta. Vi dirò una cosa, non ho mai avuto niente alle vie respiratorie, a parte naturalmente le miserie inerenti a questo sistema. Sì, le volte in cui l’aria, che contiene dell’ossigeno, pare, non voleva più scendere dentro di me, né, una volta discesa, lasciarsi espellere, potrei contarle, avrei potuto contarle. Ah sì, la mia asma, quante volte sono stato tentato di mettervi fine tagliandomi la carotide o la trachea. Ma ho tenuto duro. Il rumore mi tradiva, diventavo viola. Mi prendeva soprattutto di notte, cosa di cui non sapevo se dovevo essere contento o scontento. Perché di notte, se è vero che i bruschi cambiamenti di colore hanno minor rilevanza, per contro il minimo rumore insolito si fa notare di più, per via del silenzio della notte. Ma queste erano soltanto delle crisi, e son poca cosa, le crisi, in confronto a tutto ciò che non si ferma mai, che non conosce flusso né riflusso, dalla superficie plumbea, dalle profondità infernali. Non una parola, neanche una parola contro le crisi che m’afferravano, mi torcevano e infine graziosamente mi mollavano, senza denunciarmi a terze persone. E m’avvolgevo il cappotto intorno alla testa, il che soffocava il rumore osceno del soffocamento, oppure camuffavo quest’ultimo in accesso di tosse, universalmente ammesso e approvato, e il cui unico inconveniente è che rischia di suscitare la compassione. E forse è giunto il momento di far notare, meglio tardi che mai, che, dicendo che il mio procedere era più lento, in seguito al cedimento della gamba buona, non esprimo che una minima parte della verità. Perché in verità avevo altri punti deboli, qua e là, che divenivano anch’essi sempre più deboli, com’era prevedibile. Ma a non essere prevedibile era la rapidità con cui la loro debolezza aumentava dopo la mia partenza dalla riva del mare. Perché finché ero rimasto in riva al mare i miei punti deboli, pur aumentando in debolezza, come c’era da aspettarsi, aumentavano solo insensibilmente. Per cui avrei avuto notevoli difficoltà ad affermare, per esempio tastandomi il buco del culo, Toh, va molto peggio di ieri, non si direbbe più lo stesso buco. Mi scuso di tornare ancora su questo vergognoso orifizio, è la mia musa che l’esige. Forse bisogna vedervi non tanto la pecca che viene nominata quanto il simbolo di quelle che taccio, dignità dovuta forse alla sua centralità e alle sue arie di intermediario tra me e l’altra merda. Lo si misconosce, secondo me, questo piccolo buco, lo si chiama buco del culo e si ostenta disprezzo. Ma non sarà piuttosto la vera porta principale dell’essere, del quale la celebre bocca sarebbe solo l’entrata di servizio? Nulla vi penetra, o così poco, che non ne sia respinto sull’istante, o quasi. Quasi tutto quello che gli giunge da fuori gli ripugna, e per quello che gli giunge da dentro non si può dire che si dia molto più da fare. Non sono cose significative? Il tempo giudicherà. Ma cercherò ciononostante di concedergli un po’ meno spazio in futuro. E mi sarà facile, perché il futuro, non parliamone, non ha proprio nulla d’incerto. E se si tratta di lasciar da parte l’essenziale, credo di sapere il fatto mio, e tanto più in quanto sul fenomenico possiedo solo informazioni contraddittorie...»

(S. Beckett, “Molloy”, 1951)

mercoledì 11 giugno 2008

Tutti ingrati

Manhattan Serenade. A.J. e il suo entourage arrivano in un night-club di New York. A.J. regge la catena d’oro di un babbuino col culo viola. A.J. indossa calzoni alla zuava di lino a scacchi e una giacca di cashmere.
gestore: «Aspetti un attimo. Aspetti un attimo. Che cos’è?».
A.J.: «È un barboncino illirico. La bestia migliore cui può affezionarsi un uomo. Darà tono alla tua bettola».
GESTORE: «A me sembra un babbuino col culo viola e perciò resta fuori».
TIRAPIEDI: «Ma lo sai chi è costui? È A.J., l’ultimo spendaccione dei tempi d’oro».
GESTORE: «Digli di prendere quel bastardo col culo viola e di andare a spendacciare da un’altra parte».
A.J. si ferma davanti a un altro night-club e guarda dentro. «Froci eleganti e fighe stagionate, cristo dio! Siamo nel posto giusto. Avanti, ragazzi!».
Infila un paletto d’oro nel pavimento e ci lega il babbuino. Comincia a parlare con modi forbiti, mentre i suoi tirapiedi forniscono informazioni dettagliate.
«Fantastico!».
«Mostruoso!».
«Un vero paradiso!».
A.J. si infila in bocca un lungo bocchino, fatto di un materiale oscenamente flessibile. Dondola e ondeggia come se fosse dotato di una ripugnante vita da rettile.
A.J.: «Insomma, eccomi lì a pancia in giù a diecimila metri d’altezza».
Vari froci poco lontano alzano la testa come animali che fiutano il pericolo. A.J. balza in piedi con un ringhio muto.
«Brutto succhiacazzi col culo viola!» grida. «Adesso te la faccio vedere io a cagare per terra!». Tira fuori una frusta dall’ombrello e colpisce il babbuino sul culo. Il babbuino grida e strappa via il paletto conficcato per terra. Salta sul tavolo vicino e si arrampica su una vecchia che muore d’infarto sul posto.
A.J.: «Mi scusi, signora. La disciplina prima di tutto».
Frusta freneticamente i babbuino da un capo all’altro del locale. L’animale salta in braccio ai clienti urlando, ringhiando e scagazzando per il terrore, corre su e giù lungo il banco del bar, si lancia dai tendaggi ai lampadari...
A.J.: «O impari a cagare come si deve o non sarai mai più in condizioni di farlo».
tirapiedi: «Dovresti vergognarti di far arrabbiare così A.J. dopo tutto quello che ha fatto per te».
A.J.: «Ingrati! Tutti ingrati! Lasciatevelo dire da un vecchio trans».

(W.S. Burroughs, “Pasto nudo”, 1959; trad. F. Cavagnoli)

martedì 10 giugno 2008

Here it comes...

«You're the kind of person you meet at certain
Dismal, dull affairs
Center of the crowd, talkin' much too loud
Runnin' up and down the stairs
Well it seems to me that you have seen
Too much in too few years
And though you try you just can't hide
Your eyes are edged with tears

You better stop and look around
Here it comes, here it comes
Here it comes, here it comes
Here comes your 19th nervous breakdown

When you were a child you were treated kind
But never brought up right
And you were always spoiled with a thousand toys
But still you cried all night
Your mother who neglected you
Owes a million dollars tax
And your father's still perfecting ways
Of making sealing wax

Oh, who's to blame
That girl's just insane
Well nothin' I do don't seem to work
It only seems to make matters worse
Oh, please

Well, you were still in school when you had that fool
Who really messed your mind
And after that you turned your back
On treating people kind
On our first trip I tried so hard
To rearrange your mind
But after a while I realized
You were disarranging mine

When you were a child you were treated kind...

You will stop and look around
Here it comes
Here comes your 19th nervous breakdown
Here comes your 19th nervous breakdown
Here comes your 19th nervous breakdown
Here comes your 19th nervous breakdown»

giovedì 5 giugno 2008

Si va, così; come senza vento

È in momenti come questo che penso che, se davvero esiste un dio, è perverso e iniquo. O, per lo meno, il pessimo disegnatore di un brutto fumetto.
Poi rifletto un po' più a fondo, e mi rendo conto che io, a quel dio, non credo; perché chiedergli di rendere conto?
Lei correva con me, ed eravamo ragazzi. E non eravamo soli. Sotto il sole di agosto, o sulla neve, quando i piedi sprofondano e resta a galla solo il ginocchio, fuori e dentro le gambe, come nell'acqua ma è più freddo e più faticoso. La fatica: quanta fatica, quante gocce sulla fronte, anche sulla neve.
Studiavamo; e poi abbiamo lavorato. E poi lavoro, e oggi proprio non riesco a lavorare.
La fatalità che ci fa girare sul suo bastone da tip-tap, come palloni. Senza baricentro. Per terra. Come ruote divorate dall'asfalto, come facce divorate dall'asfalto, come cervelli divorati dal male. Dalla fatalità.
Come sappiamo essere fatalisti; come siamo fatali. Nel nostro incedere incerto.
Quanti mesi fa saranno stati? Mi parlava del suo lavoro mentre stavamo seduti in terra, e mi sembrava ancora una ragazza, perché aveva gli stessi occhi.
Ci siamo proprio voluti bene; perché eravamo amici, e correvamo.
Ciao...

martedì 3 giugno 2008

Amsterdam

Antiche abitudini

Le chiavi dei canali

The famous American pizza

Appesi ai fili

Lui adesso vive ad Atlantide

Trasporti amorosi

Messico e nuvole

La porta di casa

Traffico lecito

Non so se possiamo

...è solo un naufragio

lunedì 2 giugno 2008