giovedì 30 gennaio 2014

I tratti slavi erano più accentuati, su quel letto di qualche ora: gli zigomi più alti, gli occhi più tagliati. Gli occhi chiusi.
Tutte le cose che mi vengono in mente. Il contegno arcigno che non era vero. La casa di Sant’Alessandro e la scala di legno; il giardino, noi in veranda. Le caramelle nascoste nel mobile della sala, che io trovavo (ma mica ne prendevo più di due o tre). La televisione dal divano girato dalla parte opposto, arrampicato, il sabato sera: i Puffi, il Drive In, e poi Didomenica. Buck e Cooper. La mamma sui gradini ed i grandi cambiamenti: una specie di adolescenza lunga, quasi rubata prima e poi durata tutta la vita. I cappelli pelosi e lo sguardo severo quando li mettevamo noi. La mano per grattare la schiena, come di Fatima, conservata insieme al calzascarpe. La determinata, cocciuta, generosa perseveranza. Le tue preghiere per noi: chissà cos’hanno fatto; per me ci hanno stretto al tuo pensiero, che ci ha avvolti.
La tua borsa marrone, lì in terra, stamattina. I vestiti che la mamma ti ha messo ai piedi del letto. Intonati, mi sembrava. Le lacrime silenziose di papà. Le mie, lente, adesso.

martedì 14 gennaio 2014

La libertà e la paura

Stamane ho avuto una discussione con alcuni colleghi. Tutto è nato dalla considerazione di una di essi, già esplicitata in altre occasioni, sulla convenienza (per lei) dell’apertura dei supermercati alla domenica.
(La logica di fondo è quella della sopravvivenza a scapito degli altri: poiché il padrone mi impone orari di lavoro estenuanti, che non mi consentono di fare la spesa nel tardo pomeriggio, vado a farla la domenica; e poco importa se qualcuno dovrà lavorare per far sì che ciò sia possibile.)
Come in passato, ho fatto ironicamente notare che anche i lavoratori del supermercato saranno senz’altro felici, come lei, dell’apertura.
Un altro collega è allora intervenuto, sostenendo che questa è la vera libertà: poter decidere di lavorare la domenica, oltretutto per una retribuzione superiore. Ho ribattuto che non è libertà, ma proprio il contrario. Cioè la coercizione dettata da un sistema nel quale siamo costretti a muoverci; un sistema basato sul denaro. Che abortisce le relazioni tra individui a favore del profitto (di pochi). Mi è stato detto, in risposta, che il monte ore rimane sempre lo stesso (nota: altissimo, e spesso comprendente straordinari non corrisposti). Insomma, se uno lavora la domenica, sarà libero il martedì. Ho fatto notare, di nuovo, che se la maggior parte delle persone riposa la domenica e lavora il martedì, difficilmente chi fa il contrario potrà coltivare le sue relazioni ed i suoi affetti. Mi è stato allora detto che chi lavora la domenica e sta a casa il martedì costruirà nuovi rapporti con chi avrà gli stessi ritmi. (Così anche e amicizie saranno determinate, indirettamente, dal padrone.) Una nuova definizione di società fluida, insomma.
Io penso invece che il nostro unico vero capitale personale sia il tempo. Che la libertà sia poter decidere come destinarlo. E che la sua mercificazione, per giunta a basso costo, sia un soffocante capestro sociale che ci sta rendendo brutti, tristi, meschini, spaventati. Nelle parole e nei toni dei miei colleghi, sempre più agitati via via che la discussione divampava, ho letto paura. Altro che libertà. Ho letto l’ansia di dover sostenere, prima di tutto a se stessi, che va tutto bene così: perché ammettere che un modo migliore esiste ed è davvero applicabile farebbe crollare il fragile castello costruito con le deboli certezze della consuetudine. Ho percepito una frustrata, pigra rassegnazione: l’anticamera della resa. Li ho compatiti, per un istante. Poi ha prevalso l’urticante fastidio procurato dalla loro ignavia.
Ed ho pensato: se il terreno è questo, ne usciremo mai? Non sono sicuro di volermi rispondere.